Come essere cristiani e profeti?

Profeti del III millennio

IV domenica del tempo ordinario – anno C

Ger 1,4-5.17-19; Sal 70; 1Cor 12,31-13,3; Lc 4,21-30

La liturgia della Parola di oggi ci offre la possibilità di meditare sulla dimensione profetica della nostra vita cristiana. Ricordiamo infatti che per il Battesimo, ai cristiani viene concesso di partecipare al sacerdozio, regalità e profezia di Cristo. Tanto che il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma:

Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito “Sacerdote, Profeta e Re”. L’intero Popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano [Cf Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis, 18-21].

“Il Popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo”. Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il Popolo, laici e gerarchia, quando “aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi” [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 10] e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo.

Catechismo della Chiesa Cattolica, Nn. 783 e 785

Con le prime due letture e il Vangelo, la liturgia della Parola odierna, intende fare luce su questo aspetto del nostro Battesimo che impone alle nostre coscienze la necessità di condividere la nostra fede, di denunciare situazioni di ingiustizia sociale, scegliendo il bene, il bello, il legale e il giusto, per poter essere, in ultima analisi, promotori di una cultura nuova, radicata nell’amore, che rinnovi questa nostra società dall’interno.

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Prima lettura
Dal libro del profeta Geremia (1,4-5.17-19)

Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni.
Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te
come una città fortificata,
una colonna di ferro
e un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti».  

Quello che questa domenica leggiamo, è la vocazione del profeta Geremia. Un uomo cruciale per la via della salvezza, perché si farà compagno degli israeliti durante il momento più drammatico della sua esistenza come popolo: la sconfitta nella guerra contro Babilonia e la deportazione presso la capitale di quell’impero.
Quale sarà la missione di Geremia? Quella di invitare il popolo a fare la scelta giusta, a evitare il conflitto con le popolazioni confinanti, di non peccare dando per scontata la misericordia e l’amore divino.

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Il profeta è espressione della tenerezza divina

Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni

Di fronte all’impoverimento morale e religioso del popolo che si dirige speditamente verso la sua condanna, Dio si “inventa” un uomo, un profeta, il quale prestandogli la voce si porrà come ultimo baluardo di fronte alla degenerazione del popolo. Pensate quanta tenerezza divina. Il popolo lo ha dimenticato, e lui sceglie per sé un profeta che inviti gli israeliti a tornare sui loro passi perché si stanno dirigendo speditamente verso un percorso troppo pericoloso.
La tenerezza divina che si rivela in maniera quasi discreta in questo primo versetto, ci fa comprendere quanto Dio ci tenga a ognuno di noi. Il suo amore supera ogni possibilità da parte dell’uomo di meritarselo. Il cammino di santità, al contrario, deve nascere nel cuore di tutti noi come esigenza di poter corrispondere, per quanto in maniera imperfetta, al suo amore.

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Ma non solo. Leggendo la vocazione di Geremia, siamo chiamati a riconoscere come anche il nostro venire alla luce provenga da un atto d’amore misericordioso di Dio verso i nostri genitori, ma soprattutto verso l’intera famiglia umana ed ecclesiale. Dio ci dona la vita, e ce la dona al risveglio di ogni mattino come ad ogni respiro che facciamo, perché questa venga riempita di senso nella donazione verso l prossimo, per la costruzione di una società più a misura d’uomo.
Ognuno di noi, oggi, è chiamati a immedesimarsi in questo profeta che si scopre chiamato alla vita per un preciso progetto d’amore di Dio. Quindi non possiamo esimerci dalla domanda. “Ma io cosa ne sto facendo della mia vita? Come sto impegnando il mio tempo? Sono consapevole che ogni minuto che passa è un minuto perso?”

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Il contenuto della messaggio profetico

Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi,
àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò;
non spaventarti di fronte a loro,
altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro.
Ed ecco, oggi io faccio di te
come una città fortificata,
una colonna di ferro
e un muro di bronzo
contro tutto il paese,
contro i re di Giuda e i suoi capi,
contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese.
Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno,
perché io sono con te per salvarti». 

YHWH rivela Geremia una serie di azioni da adottare prima di iniziare il suo ministero profetico. L’invito ad alzarsi e cingersi i fianchi, ricorda le parole di Gesù quando parla dell’atteggiamento del vero discepolo che sa attenderlo prestandosi nell’amore al prossimo.

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Se «Dio è Amore» (1Gv 4,8) e il suo intento è unicamente mirato alla felicità dell’uomo, anche il profeta deve essere animato dalla passione per l’intera umanità. Da qui, i fianchi cinti, indici di una prontezza nell’eseguire i comandi divini, ma anche di servizio nei confronti del fratello. La profezia, dunque, si staglia all’interno della vocazione battesimale del cristiano, come un vero e proprio atto d’amore universale.
Il secondo atteggiamento del profeta, è quello di essere impavido. La sua missione non sarà una strada spianata, ma un cammino faticoso che comporterà incomprensioni e scontri, finanche alle persecuzioni. L’invito è quello di essere uomini e donne capaci di nuotare controcorrente, di non assuefarci a un tanto comodo, quanto mediocre, “Così fanno tutti” o “È la loro vita e non mi riguarda”. La santità del fratello certamente ci riguarda. Lo abbiamo visto nell’insegnamento di Gesù qualche giorno fa: è questione di vita o di morte.

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Perché il profeta non deve avere paura di fronte ai contrasti che genererà il suo ministero? Perché avrà Dio come alleato, e con lui vicino non avrà paura di nessuno. Sarà lui stesso a prendersi cura del suo profeta. Ci troviamo di fronte a una verità con la quale dobbiamo fare i conti, perché molto spesso viviamo da cristiani pavidi, con miriadi di compromessi pur di non dire la nostra, pur di non annunciare la nostra fede.
Oggi siamo chiamati a riconoscere che Dio mette un valore aggiunto del suo amore, della sua tenerezza, della sua protezione, verso quell’uomo o quella donna che decidono di fare sul serio con lui, che accolgono la sua pro-vocazione e decidono di farsi carico, e collaboratori, del suo piano salvifico per l’umanità.

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Seconda lettura
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 12,31-13,3)

Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino.
Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! ]

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L’apostolo Paolo scrive a una comunità tentata di scissioni, dove il servizio e i doni del singolo vengono assolutizzati a tal punto da spingere a credere che alcuni sarebbero migliori di altri. Egli evita di dare una gerarchia ai doni e ai servizi nella comunità e fonda tutto nell’amore. Per lui, infatti, è la carità che qualifica e da senso a tutto il nostro agire soprattutto all’interno degli ambienti ecclesiali.
Ci troviamo di fronte a una verità molto chiara, netta e critica per tutte le nostre comunità parrocchiali e religiose tentate di assolutizzare la qualità di un cammino di fede in base al gruppo al quale si appartiene. Non sarà quello a salvarci, ma come viviamo tra i banchi delle nostre chiese. Ben lo afferma San Giovanni della Croce:

Alla sera della vita sarai esaminato nell’amore

Giovanni della Croce, Detti di luce e amore, n. 59

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Per Paolo l’amore, l’accoglienza, la riconciliazione, è il compendio di tutto il Vangelo, la sintesi di tutto quello che Dio si aspetta da noi, il senso del nostro essere all’interno di una comunità ecclesiale. Non è vero che servono bravi lettori per leggere le letture, ma servono persone innamorate di Dio, della sua Parola, del suo popolo.

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 4,21-30)

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».
Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».
All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Il brano del vangelo di questa domenica, segue esattamente quello della scorsa settimana. avevamo visto, infatti, di come Gesù dopo il Battesimo al Giordano e i quaranta giorni di digiuno e preghiera nel deserto, torna nella sua città di origine, Nazaret. Egli lo fa, però, da persona intimamente rinnovata: già non torna a Nazaret come il figlio di un umile falegname del posto, ma come il Messia. Tanto che l’evangelista aveva annotato il successo della predicazione di Gesù nella Galilea e di come lo Spirito Santo fosse su di lui.

Ecco allora che il suo rientro nella città che lo ha visto crescere è segnato dall’incomprensione. Lui che aveva annunciato la realizzazione della profezia di Isaia sulla sua persona, venuto per liberare l’uomo da tutte le sue schiavitù e dalla morte, ora è causa di scandalo agli occhi di chi non vede altro che il suo passato.
Non raramente anche noi ci comportiamo come i concittadini di Cristo: una volta che abbiamo bollato, etichettato una persona, facciamo difficoltà a riconoscerla al di fuori del giudizio che le abbiamo dato. L’invito è quello di saper andare oltre il passato, la storia dei nostri fratelli, oltre persino i suoi errori commessi e di quelli della sua famiglia. Ognuno, a imitazione di Gesù, può diventare causa di una grazia divina per tutti noi, ognuno di noi è chiamato a riconoscersi più grande del suo passato, dei suoi peccati commessi in gioventù, degli errori della sua famiglia.

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La vedova di Sarepta e Naaman il Siro
Di fronte all’incredulità dei concittadini, Gesù deluso del loro atteggiamento incredulo, incapace di accogliere e farsi stupire da Dio, dice:

Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

Chi sono questi personaggi che Gesù nomina? Si tratta di un uomo e una donna vissuti nella stessa epoca, beneficati da due grandi profeti Elia ed Eliseo. Benché la prima fosse di una estrazione sociale molto povera, il secondo si distingueva per l’importanza sociale ed economica. Cos’hanno in comune? Sono gente pagana, raggiunta dalla tenerezza salvifica di Dio attraverso i due profeti. Un uomo e una donna estranei alla religiosità ebraica, ma che furono capaci di accogliere la novità di Dio mediata attraverso due persone per loro comuni, ma che in realtà erano profeti.
La risposta di Gesù è molto forte. Non raramente infatti resta indignati per gli uomini di fede della sua epoca. Lo abbiamo visto qualche giorno fa, nel suo atteggiamento verso gli scribi.

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Conclusione
Ma non solo. Guardando l’atteggiamento degli abitati di Nazaret, siamo chiamati a saperci fare stupire da Dio. Come la seconda Persona della Trinità, si presento incarnato nella persona di Gesù di Nazaret, allo stesso modo il Signore passa attraverso i soliti volti della nostra quotidianità, tra le persone che incontriamo per strada o lungo le code agli uffici pubblici, tra i banchi di scuola o sul posto di lavoro, tra i membri della nostra famiglia e quelli della nostra comunità ecclesiale. Non sia mai che mentre Cristo ci è accanto, ci parla e ci ama nella persona dei fratelli, noi, come i suoi concittadini, vogliamo spingerlo lungo il ciglio di un monte per metterlo a morte.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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