In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!» (Lc 12,35-38).
Contesto
Ci troviamo all’interno di quella grande sezione narrativa, all’interno della quale l’evangelista Luca inserisce il grande viaggio di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme (Lc 9,51-18,14), e che la liturgia della Parola da alcuni giorni ci sta facendo meditare (vedi precedenti articoli: “Cosa fare quando la vita ti chiude le porte in faccia?” e “Il criterio di Gesù per verificare la qualità della tua fede“).
Ci troviamo di fronte a un brano dal carattere apocalittico, che parla cioè degli ultimi tempi: di una esistenza che deve essere vissuta come una eterna veglia, non di certo per paura di qualche catastrofe, ma come risveglio alla vita vera. Infatti appartiene a un insegnamento più ampio di Gesù, nel quale rientra anche la parabola del ricco epulone. Leggiamo:
Poi disse loro una parabola: “La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio” (Lc 12,16-21).
Ad essa, segue l’invito di non preoccuparsi per il vestito o il cibo, ma di confidare nella Provvidenza del Padre che non abbandona mai nessuno (Cfr. vv. 22-31), e quindi l’invito ad accumulare tesori non per questo mondo, ma per il Regno dei cieli (Cfr. vv. 32-34).
«Siate pronti con le vesti strette ai fianchi»
È il primo invito di Gesù ai discepoli, perché sappiano vivere questa vita come una gioiosa attesa dell’eternità. Si tratta di vivere questa nostra esistenza, senza lasciare nulla al caso, con la nostra anima pronta, allenata nella preghiera, nutrita dall’Eucaristia, purificata dalla Riconciliazione. Si tratta di vivere ogni istante come se fosse l’ultimo e di farsi trovare al cospetto di Dio, senza nulla da purificare, ma pronti per entrare alla sua presenza e a quella dei santi.
Perché le vesti strette ai fianchi? Perché è l’abbigliamento del pellegrino, di colui che deve viaggiare in comodità, il più speditamente possibile. Infatti, l’abbigliamento dell’israelita, finanche al tempo di Gesù, consisteva in una lunga tunica ed un mantello. Cingere i fianchi significava fare in modo che il passo non venisse inciampato nel lungo abito che copriva tutto il corpo fino alle caviglie.
Ma non solo. Il vestire con i fianchi cinti, ricorda la grande Pasqua di Israele, il passaggio/fuga dall’Egitto, terra di umiliazione e schiavitù, alla terra promessa e santa donata da Dio. Leggiamo, infatti, nel libro dell’Esodo:
Il Signore disse a Mosè e ad Aronne in terra d’Egitto: “Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno. Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto. Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. Non lo mangerete crudo, né bollito nell’acqua, ma solo arrostito al fuoco, con la testa, le zampe e le viscere. Non ne dovete far avanzare fino al mattino: quello che al mattino sarà avanzato, lo brucerete nel fuoco. Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta. È la Pasqua del Signore! (Es 12,1-11).
L’insegnamento di Gesù per noi cristiani è chiaro: come gli israeliti dovevano fuggire di notte da una vita di stenti e sofferenze, così il discepolo di Cristo è chiamato a riconoscere la finitudine di questa vita, nella consapevolezza che la sua vera patria è il cielo.
«E le lampade accese»
Non basta essere pronti e con i fianchi cinti, ma è necessario farsi trovare con le lampade accese. Se da un lato il simbolismo è chiaro, perché è proprio del dormiente tenere spente tutte le luci, dall’altro però rimanda a un simbolismo ben più ricco. Essa, come emerge nel Vangelo di Matteo, ha un valore affettivo, proprio di chi non si stanca di attendere l’Amato. Con la lampada accesa, infatti, attendono le vergini sagge l’arrivo del loro sposo.
Allora il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora (Mt 25,1-13).
A questo tipo di attesa, speranzosa, gioiosa ed affettiva Gesù invita i discepoli, e i cristiani di tutti i tempi, attendere la sua venuta finale nella gloria.
Il segreto della felicità
Per due volte, quasi consecutivamente, Gesù ripete la parola “beati”. Abbiamo avuto modo di approfondire questo termine greco e alla gioia mistica e messianica alla quale rimanda (vedi articoli “Rallegrati, piena di grazia” , “Felice tu tra le donne” e “L’anima mia gioisce nel Signore“).
In questo caso, i discepoli sono chiamati alla beatitudine, cioè alla gioia, nella misura in cui vivono da uomini e donne che sanno attendere, tenendo la luce della fede e dell’amore ben accesa, che si facciano trovare con i fianchi cinti, pronti a seguire e a servire il Maestro.
È un dato interessante, perché lì dove la cultura odierna indica la gioia nel comandare, nel rivelarsi più potenti, più forti, qualificati e intelligenti del prossimo, Gesù rivela che in realtà altra gioia non c’è se non di quella di chi serve. Ma non solo.
Oggi a maggior ragione, troviamo nelle parole di Gesù la via per vivere una vita veramente libera da tutti i nostri pregiudizi, sovrastrutture, meccanismi di difesa, egoismi. E Gesù indica questa via nel servizio. Sì, oggi potremo dire che solo chi serve è davvero libero. Perché? Perché chi decide di farlo non vive condizionato dai suoi preconcetti, dalle paure di amare ed essere ferito, non resta schiavo di quello che possano pensare gli altri, né dell’immagine da mantenere agli occhi dei benpensanti.
Chi serve, infine, è davvero un uomo libero perché imita l’atteggiamento di Gesù. Egli infatti, non solo non si lasciò piegare dalle logiche di potere della sua epoca ma persino si presenta come il Liberatore dell’uomo dalle sue ipocrisie, peccati e persino dalla morte.
Guardando, dunque, l’insegnamento di Gesù oggi potremo cogliere quale sia la fonte della gioia alla quale egli ci invita ad attingere. Ed essa si trova proprio in questo servizio libero e liberante, in un’attesa che non è statica, ma operativa e che si traduce nell’amore verso di lui e verso ciò che egli ama.
Siamo chiamati a liberarci dalla chimera di una felicità che risieda nel sogno del potere e del denaro, e riconoscere che essa abiti, totalmente altrove.
I servi son serviti
Il brano si conclude con un invito all’attesa di un padrone. Si tratta, ancora una volta, non di un padrone dispotico, da temere, ma qualcuno che viene atteso con ansia e gioia, tale che i servi si fanno provvidi nei suoi riguardi senza farlo attendere fuori nella notte, ma aprirgli prontamente la porta della casa.
Qui si situa il paradosso della narrazione: il padrone si fa servo dei servi. Commosso dalla loro perseveranza nell’attenderlo, si cinge i fianchi e li serve. È interessante che quanto Gesù narra è quello che effettivamente continua ad avvenire. Non solo perché il Figlio di Dio si è addossato i peccati dell’umanità, e l’ha redenta con la sua passione, morte e risurrezione, ma perché è quello che avviene quotidianamente attraverso i sacramenti, in cui l’Altissimo si fa piccolissimo, nel pane eucaristico, per saziare la nostra anima affamata di eternità. Egli, che non ha conosciuto peccato, si china sul nostro peccato e per la sua misericordia, nel Sacramento della Riconciliazione ci riammette alla comunione con Lui.
In maniera profetica don Tonino Bello credeva fermamente in quella che lui chiamava “La Chiesa del grembiule”, quella di chi si serve il suo prossimo imitando l’atteggiamento di Cristo nella lavanda dei piedi. Egli così scriveva:
La cosa più importante, comunque, non è introdurre il “grembiule” nell’armadio dei “paramenti sacri”, ma comprendere che la stola e il grembiule sono quasi il diritto e il rovescio di un unico simbolo sacerdotale.
Tonino Bello, Stola e grembiule
Anzi, meglio ancora, sono come l’altezza e la larghezza di un unico panno di servizio; il servizio reso a Dio e quello offerto al prossimo.
La stola senza il grembiule resterebbe semplicemente calligrafica.
Il grembiule senza la stola sarebbe fatalmente sterile. […]
Non so se sto forzando il testo. Ma a me pare che con questa espressione del vangelo venga offerto il paradigma dei nostri comportamenti sacerdotali, se vogliono collocarsi sul filo della logica eucaristica.
Chi sta alla tavola dell’eucarestia deve “deporre le vesti”.
Le vesti del tornaconto, del calcolo, dell’interesse personale, per assumere la nudità della comunione.
Le vesti della ricchezza, del lusso, dello spreco, della mentalità borghese, per indossare le trasparenze della modestia, della semplicità, della leggerezza.
Le vesti del dominio, dell’arroganza, dell’egemonia, della prevaricazione, dell’accaparramento, per ricoprirsi dei veli della debolezza e della povertà, ben sapendo che “pauper” non si oppone tanto a “dives” quanto a “potens”.
Dobbiamo abbandonare i segni del potere, per conservare il potere dei segni.
Non possiamo amoreggiare col potere.
Non possiamo coltivare intese sottobanco, offendendo la giustizia, anche se col pretesto di aiutare la gente.
Gli allacciamenti adulterini con chi manipola il danaro pubblico ci devono terrorizzare.
Dovremmo rimanere amareggiati ogni qualvolta ci sentiamo dire che le nostre raccomandazioni contano.
Che la nostra parola fa vincere un concorso.
Che le nostre spinte sono privilegiate. Il bagliore dei soldi anche se promesso per le nostre chiese e non per le nostre tasche, non deve mai renderci complici dei disonesti, diversamente innescheremmo nella nostra vita una catena di anti-pasque che arresteranno il flusso di salvezza che parte dalla pasqua di Cristo.
In una parola, “depose le vesti” per noi sacerdoti deve significare divenire “clero indigeno” degli ultimi, dei poveri, dei diseredati, dei sofferenti, degli analfabeti, di tutti coloro che rimangono indietro o sono scavalcati dagli altri.
Le parole del vescovo di Molfetta, morto in concetto di santità, erano certamente rivolte ai presbiteri della sua Chiesa locale, ma restano attuali per ogni cristiano che intenda fare sul serio col proprio battesimo.

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