Come mutare una prova in opportunità di crescita personale e spirituale?

LA GIOIA IN TEMPO DI QUARESIMA
Nel corso delle ultime settimane, abbiamo offerto una serie di spunti di approfondimento per vivere veramente appieno, questo tempo di grazia che è la Quaresima. A questi articoli rimandiamo per avere un quadro più completo.

In particolare, la quarta domenica di Quaresima è chiamata Laetare, cioè della letizia, della gioia. L’intento della Chiesa, è quello di rinfrancare il cuore del fedele, offrendo un momento di pausa dalla penitenza e invitando a riflettere anche sulla gioia della salvezza che si avvicina con la celebrazione della Pasqua. Per questo la Chiesa, in qualche modo, si spoglia dei suoi paramenti viola per indossare quelli rosacei, simbolo universale della gioia.

Prima lettura
Dal secondo libro delle Cronache (2Cr 36,14-16.19-23)

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. 
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. 
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». 
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

Contesto
L’autore del libro delle Cronache, intende offrire una sintesi della storia di Israele a partire da una prospettiva teologica. Il popolo, cioè, si riconosce tale solo in misura della sua relazione col Dio dei loro padri, quello che li ha riscattati dalla schiavitù egizia, li ha condotti lungo il deserto costituendolo come popolo dell’Alleanza, e infine ha donato loro una terra promessa, piena di delizie, dove scorrono fiumi di “latte e miele” (Es 3,8).
Tuttavia il percorso del popolo è stato tutt’altro che lineare. Difatti, come ben sintetizza l’autore sacro, è possibile notare questa costante tensione tra l’infedeltà del popolo e la compassione di Dio e tra il pentimento del popolo e l’immeritata, e inattesa, benevolenza del Signore.

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L’infedeltà del popolo
La prima parte della nostra prima lettura, contrassegnata dalla durezza del cuore di Israele che ha abbandonato il suo Signore, per dedicarsi alle mode del momento: l’adorazione di idoli pagani, a imitazione delle nazioni confinanti.

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli.

E come se già questo non fosse sufficiente, pervertono a tal punto la loro religiosità, dal profanare il tempio di Dio, luogo della sua presenza, consacrandolo alle stesse divinità pagane.

Contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. 

Il rifiuto nei riguardi del Signore oltre ad essere deplorevole, è anche irrevocabile da parte di Israele. Tanto che senza una vera motivazione, ha deciso di bandirlo dalla sua esistenza.

Il Dio-sposo che ama con cuore materno
Riteniamo, tuttavia, davvero molto interessante l’atteggiamento stesso di Dio. Egli già agli esordi della costituzione del popolo, riunito ai piedi del monte Sinai, lo aveva redarguito richiamandosi alla sua gelosia sponsale, per cui avrebbe voluto un rapporto esclusivo con Israele:

Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano (Es 20,5).

Tu non devi prostrarti ad altro dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso (Es 34,14).

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E allora, potremmo chiederci, dov’è tutta questa sua gelosia? Dov’è la punizione promessa? Dov’è la sua ira? Ecco, alla fine il nostro Dio, che ama con cuore di madre, finisce per comportarsi proprio come un genitore il quale minaccia punizioni che alla fine non attua mai, consapevole che una carezza sia decisamente più educativa di uno schiaffo. Difatti, tornando alla nostra prima lettura, vediamo come reagisce di fronte al grave atteggiamento del popolo infedele:

Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.

Sembra che Gesù stesso si sia lasciato ispirare da questo passo del libro delle Cronache, nell’insegnamento della parabola dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-43), per il cui approfondimento rimandiamo all’articolo raggiungibile cliccando sull’immagine in basso.

La deportazione a Babilonia
Nonostante i tanti tentavi del Signore, Israele però non ne vuole sapere di convertirsi. Abbandonando in maniera definitiva Dio, pensa di poter bastare a se stesso, finendo per condannarsi a una nuova era di schiavitù e di esilio. È quello che viene narrato nei versetti successivi del nostro brano:

Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi. 
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». 

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Dov’è la gioia?
Di fronte a quanto narrato fino ad ora, la domanda è piuttosto lecita. Dopotutto abbiamo letto uno dei momenti più bui del popolo eletto da Dio: crede di essere l’artefice del suo benessere, che possa fare a meno di Colui che un tempo lo ha liberato dalla schiavitù in Egitto e gli ha donato una terra fertile nella quale vivere e prosperare, e alla fine non fa altro che dirigersi in un baratro dal quale sembra non poterne più uscire.
Se, però, il popolo ha voluto fare a meno del suo Sposo, questi ancora non ha rinunciato alla sua sposa. Difatti il periodo dell’esilio in terra Babilonese (dove la parte migliore del popolo sarà deportato e vivrà da schiavo), diventa per Israele un’occasione di riflessione personale, di conversione e pentimento, di ritorno a un Dio che, come il padre della parabola del figliol prodigo (Lc 15,11-32; clicca sul link in basso), attende sull’uscio di casa quel figlio che aveva voluto chiudere ogni rapporto con lui.

Difatti, così abbiamo letto nella seconda parte del nostro testo:

Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

Il popolo di Israele, può tornare a godere della sua libertà, della sua identità culturale e cultuale, non perché se lo sia meritato, né per un evento fortuito, ma perché come sottolinea l’autore: Dio muove il cuore del nuovo imperatore persiano (che tra l’altro era pure pagano).
Dio non ha rinunciato a Israele, anche quando quest’ultimo sì che lo aveva fatto nei suoi confronti. Il Signore non ha posto lo sguardo verso un altro popolo: il suo cuore è tutto e solo per la sua sposa-Israele alla quale ha promesso fedeltà, anche quando non ne ha in cambio.

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Questo evento non può che metterci in crisi. Talvolta anche noi come Israele ci sentiamo ormai vinti, come in un vicolo cieco da dove non vediamo uscite e intorno a noi è solo tenebre e oscurità. È proprio quando la sfiducia si affaccia alle nostre coscienze, proprio quando pensiamo di essere un caso perso, Dio interviene con tutta la sua potenza e si rivela per quello che è: un Dio non solo Creatore, ma anche creativo perché si ingegna per renderci felici e trova soluzioni impensabili. Come nel caso di Israele che vede sorgere un regnante benevolo che senza alcuna vera motivazione, mosso probabilmente da un’inconsapevole ispirazione divina, ridona la dignità a un intero popolo.

Oggi allora siamo chiamati a cogliere questo invito a non disperare mai, ma soprattutto a far memoria. Quando attraversiamo quelle prove che inevitabilmente la vita ci pone dinanzi, guardiamoci indietro, facciamo memoria. Soffermiamoci a quei particolari momenti della nostra storia personale quando abbiamo visto chiaramente la presenza di Dio nella nostra vita, quando l’abbiamo sentito vicino a noi con la sua consolazione, quando lo abbiamo riconosciuto in un volto o in una particolare parola per noi, quando abbiamo fatto esperienza della sua eterna misericordia o della sua immensa provvidenza. Ecco, se Dio ci è stato vicino in quei momenti bui, perché non dovrebbe esserlo adesso? Dio è fedele, gli infedeli siamo noi!

Cari amici lettori, siamo in tempo di quaresima, e sono convinto che questo atteggiamento di Dio non può non metterci in crisi di fronte alle tante nostre infedeltà. Anche noi siamo chiamati a fare i conti con le nostre idolatrie, con tutte quelle realtà materiali e immateriali che anteponiamo a Dio, alla preghiera, alla carità fraterna. Oggi, dunque, è per noi il tempo propizio per tornare a lui con tutto il cuore, di rimetterci alla sua compassione, sperimentarne la misericordia attraverso i Sacramenti e tornare a godere della gioia della nostra relazione santificante, liberante e sanante con Lui.

Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 3,14-21)

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: 
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Contesto
Il brano evangelico è tratto dal lungo dialogo notturno che interviene tra Nicodemo e Gesù. Questi è un membro autorevole del sinedrio gerosolimitano, essendo uno dei capi dei Giudei (Cfr. Gv 3,1). Lo stesso rabbì di Nazareth, ne riconosce l’autorevolezza teologica e spirituale, chiamandolo «Maestro d’Israele» (Gv 3,10).
Pur incuriosito dalla figura di Gesù, a motivo del ruolo all’interno della società di Gerusalemme, ha paura di compromettersi troppo con lui, per questo lo cerca con il favore delle tenebre. Si apre infatti con queste parole, il terzo capitolo del Vangelo secondo Giovanni:

Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: “Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui” (Gv 3,1-2).

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Una cosa è importante sottolinearla, questo strano personaggio, che talvolta si comporta in maniera ambigua e sembra tentar di stare con due piedi in una scarpa, ricopre all’interno dell’opera giovannea, un ruolo di particolare importanza. Egli infatti compare in tutti i momenti salienti della vita di Cristo.
Dopo, infatti, il lungo dialogo notturno (che cercheremo di approfondire nel corso di questo articolo), egli compare, misteriosamente, per redimere una disputa che voleva mettere alla gogna il Messia di Nazareth prima del tempo. In quel caso, infatti, mentre Gesù è a Gerusalemme durante la festa ebraica delle Capanne e promette l’acqua viva dello Spirito Santo a chiunque crederà in lui, mentre la gente, stupita, riconosceva l’autorità del suo insegnamento e della sua persona, c’era chi voleva mettere le mani su di lui e arrestarlo. Così, misteriosamente, appare Nicodemo per sedare gli animi (Cfr. Gv 7,37-53).

La terza e ultima volta in cui appare questo personaggio di spicco dell’epoca, è alla morte di Gesù. Egli, facendosi compagno di Giuseppe d’Arimatea che chiede il corpo del Nazareno a Pilato, per dargli una degna sepoltura, porta con sé un’ingente quantità di aromi per ungere il suo corpo (Cfr. Gv 19,38-42).
Nicodemo dunque appare in tre momenti distinti del Vangelo secondo Giovanni: all’inizio, a metà dell’opera e alla fine. Sono tre momenti cruciali per la sua vita, perché matura passo per passo il suo discepolato. Per questa ragione, in qualche modo, a livello narrativo funge come modello dell’uomo di fede che si lascia interrogare da Cristo, comprendendo che la scoperta del suo volto e della sua identità, è una scoperta graduale, un cammino interiore e, in quanto tale, graduale.

Cambiare prospettiva: la prova come opportunità
Il brano evangelico si apre con queste parole di Gesù:

Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.

Il Maestri, si riferisce a un particolare episodio della storia di Israele, quando il popolo liberato dalla schiavitù egizia per quarant’anni si mise in cammino per dirigersi verso la terra promessa. In una particolare occasione gli israeliti si riferirono a Dio e al suo condottiero Mosè con parole molto dure:

Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”.  Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. Il popolo venne da Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Mosè pregò per il popolo. Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita”. Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita (Nm 21,4-9).

Anche qui, come l’evento esilico babilonese della prima lettura, ciò che inizialmente veniva percepito come un male, diventa un’opportunità di salvezza: il serpente apportatore di morte, innalzato al cielo, diventa causa di vita. Lo stesso accade con la croce di Cristo: quello che era un patibolo di morte infamante, diventa causa di salvezza, tanto che la Chiesa in maniera solenne venera la santa Croce nel giorno del venerdì Santo e la esalta liturgicamente, nella celebrazione del 14 settembre di ogni anno.
Ecco allora un’altra provocazione per il nostro cammino quaresimale, per la nostra vita cristiana: tutto nella nostra vita può diventare occasione di salvezza, di crescita personale e spirituale, di esperienza della grandezza di Dio. L’importante è saper affrontare queste prove con una memoria grata, per le grandi cose che Dio ha fatto per noi, e uno sguardo contemplativo, quello cioè che è capace di andare oltre la cronaca nera, gli eventi di morte e la desolazione del nostro mondo, e si sforza di riconoscere la presenza di Dio tra noi, i segni di speranza e di bellezza che ci attorniano e che purtroppo tendiamo a dare per scontato.

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Dov’è la gioia?
La Chiesa ha scelto questo brano evangelico, per la IV domenica di Quaresima, riconoscendo nelle parole di Gesù, la fonte della sua gioia:

Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.

L’amore di Dio è la nostra buona Notizia, è la sintesi della proclamazione, del ministero e della missione stessa di Gesù Cristo. Il Signore non è l’Altissimo, il Giudice supremo, ma un Padre tenero che ti ama e che per te è pronto a sacrificare quanto ha di più prezioso in assoluto, convinto che ne valga la pena, convinto che la tua vita valga quel sangue sparso sulla croce oltre duemila anni fa.

Mantenere attivo un blog, comporta delle spese, purtroppo non è gratuito. Sostieni gioiacondivisa.com e la divulgazione della gioia della Parola di Dio. Farlo è semplice: basta una piccola donazione cliccando qui, o sul bottoncino a sinistra. Sii estensione di quella Provvidenza di cui abbiamo bisogno per continuare.

Dio è questo Figlio che muore d’amore per te, è Spirito Santo che riversa in te questo amore perché tu possa sperimentare una vita nuova non più segnata dal peccato e dall’egoismo, ma dalla gratitudine, dalla riconciliazione, dalla lode, dalla vita nuova ed eterna che inizia qui ed ora.
Gioite, dunque, cari amici lettori. Anzi, siate voi stessi occasione di gioia per il cuore del nostro Dio e siate anche occasione di una gioia liberante e sanante di tutto il vostro prossimo. Sia lodato Gesù Cristo!

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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