Lasciatevi riconciliare da Cristo

IV domenica di quaresima – anno C

Gs 5,91.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32

IL PUNTO DELLA SITUAZIONE
Il titolo di questo nostro articolo, proviene da quello che possiamo dire essere il grido di San Paolo che emerge dalla sua seconda lettera indirizzata ai cristiani di Corinto, in Grecia. Ci troviamo di fronte a un appello accorato, viscerale, quasi più supplichevole che esortativo, indirizzato a una comunità che vive al suo interno delle forti frizioni, delle divisioni che creano scandalo. Agli occhi dei nuovi credenti, sì, ma soprattutto agli occhi del Padre che ha creato l’umanità e l’ha redenta in Cristo rendendola una famiglia, non una somma di singoli, o fazioni, che cozzano tra loro costantemente.
Ecco allora che il tema della riconciliazione è il filo conduttore della liturgia della Parola di questa quarta domenica di quaresima, mentre ormai la Pasqua la si può già vedere all’orizzonte. Essa si approssima con tutto il suo carico di grazie: ma come ci troverà spiritualmente? Domande del tipo: come abbiamo vissuto questo tempo di quaresima? Cosa ne ho atto delle ripetute esortazioni alla conversione? Diventano ormai d’obbligo per noi uomini di fede che abbiamo deciso di fare sul serio con Cristo, che facciamo un cammino di fede all’interno delle nostre realtà ecclesiali e parrocchiali.

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È un tema, dopotutto, che in diversi modi è emerso nelle letture evangeliche di questi giorni. Abbiamo visto infatti come la quaresima imponga un cammino di ritorno sui propri passi, come un ritorno a casa, nella celebrazione del mercoledì delle ceneri, ma è anche un tempo di lotta con noi stessi, che ci impone un’apertura verso Dio e il nostro prossimo. Gesù stesso, dopotutto, ci aveva chiesto di imitare la perfezione del Padre, di essere suoi mediatori di fronte a questa umanità spesso controversa, ipocrita. Guardando, allora, tutta questa ricchezza, questo patrimonio di parola divina rivolta direttamente a noi, cosa ne abbiamo fatto? Quali frutti abbiamo portato? Rimandiamo di seguito gli accessi alle provocazioni di Gesù sopracitate, per aiutarci a questa riflessione:

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Seconda lettura
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (2Cor 5,17-21)

Fratelli, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione. Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione.
In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio.
Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio. 

Il versetto iniziale di questa seconda lettura è davvero un invito al rinnovamento: riconoscersi nuove creature a motivo dell’opera redentrice di Cristo, la sua passione, morte e risurrezione. Essa si realizza costantemente nel cristiano, come necessità di una freschezza e una ringiovanimento costante, grazie ai sacramenti. In questo caso il Battesimo e l’eucaristia, ma soprattutto la Confessione.

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In effetti San Paolo, giustifica questo rinnovarsi dei cristiani, proprio grazie a quella riconciliazione, fraterna e sacramentale, che ci permette di fare il punto della situazione con noi stessi, con Dio, la Chiesa e il nostro prossimo. In questo senso, potremmo dire, che ogni volta che ci accingiamo a celebrare il sacramento della Riconciliazione, facciamo una sorta di rinnovo del guardaroba. Dove le cose vecchie, quelle che ci imbruttiscono, che sono poco consone con il nuovo look, guadagnato grazie all’assoluzione sacramentale, viene scartato, eliminato. Questa vale sia per la nostra vita spirituale, dove diciamo no al peccato, ma anche nella nostra quotidianità, quando cerchiamo di tornare a prenderci cura di noi stessi.

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Non c’è remissione dei peccati, senza l’assoluzione dei ministri di Dio
Se c’è una cosa che dobbiamo tenere presente è che per quanto sia bello confessarsi a tu per tu con il Signore, questo non implica una remissione dei peccati. Non c’è assoluzione sacramentale, non c’è vera riconciliazione con Dio, senza la mediazione dei sacerdoti. E questo non perché nella storia i sacerdoti decidessero di complicarsi la vita, ma per vera e propria istituzione divina che proviene dall’evento pasquale. Leggiamo, infatti, nel vangelo secondo Giovanni, come il Risorto appaia ai discepoli riuniti e soffiando lo Spirito Santo su di loro, rese sacramentale, e quindi vero ed efficace, il perdono di Dio per l’umanità:

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo, soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” (Gv 20,19-23).

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Ci troviamo di fronte a un mistero della volontà di Dio che trova luce in quel suo modus operandi che si concretizza nella logica dell’incarnazione: il Figlio del Dio Altissimo, ha deciso di visitare e salvare l’umanità, presentandosi ad essa non nella magnificenza gloriosa della sua divinità, ma attraverso la piccolezza di un fanciullo, fragile e indifeso, che nasce all’interno di una coppia povera, alla periferia di Israele. Questo modo di agire di Dio, si concretizza poi anche nell’eucaristia, mistero della fede per eccellenza, in cui all’uomo viene concesso di entrare in intima comunione col suo Salvatore, attraverso quello che agli occhi sembra solo un comune pezzetto di pane.

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Anche per San Paolo, dunque, era chiaro che non c’era vera riconciliazione con Dio attraverso coloro che lui chiama «ministri» e «ambasciatori»: uomini imperfetti che non rimettono i peccati altrui, per i propri meriti, ma per quelli di Cristo e agiscono, parlano ed operano facendo le sue veci, pur facendo talvolta scelte controverse, pur restando uomini comuni e in quanto tali peccatori. Eppure, già solo per il servizio che compiono, per l’essere chiamati ad essere mediatori della salvezza divina, dovrebbero essere rispettati e onorati dal popolo cristiano, non per i loro meriti, ma per il ministero che svolgono.
Oggi, dunque, siamo chiamati a riconoscere quanto sia importante per il nostro cammino cristiano, e quaresimale, il sacramento della riconciliazione e a sfuggire dalla tentazione di farci una religiosità su misura, secondo quanto ci venga comodo.

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 15,1-3.11-32)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Contesto
Il brano evangelico che la Chiesa ha scelto di meditare in questa quarta domenica di quaresima, è la parabola comunemente chiamata del figliol prodigo. Ci troviamo all’interno di quella importante sezione narrativa del Vangelo secondo Luca, il quindicesimo capitolo, che raccoglie le parabole della misericordia, di cui avemmo modo di approfondire le prime due parabole in un nostro precedente articolo, raggiungibile al link in basso.

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Cosa spinge Gesù a pronunciare queste parabole?
Se c’è una cosa per la quale dovremmo ringraziare l’ipocrisia, i musi lunghi e i complotti degli avversari di Gesù è proprio questa: grazie a loro sono pervenute ai cristiani di tutte le epoche, le parabole della misericordia che ci rivelano il cuore tenero di Dio e la sua propensione a voler avere una relazione festosa, gioiosa, amicale e amorevole con tutta l’umanità redenta.
In effetti, la liturgia della Parola ben a ragione fa precedere alla parabola vera e propria, i primi versetti del quindicesimo capitolo:

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».

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Scribi e farisei spiano, più o meno da lontano, Gesù. Gli si accostano solo per screditarlo o trovare occasioni per incriminarlo. In questo caso, sembra quasi vederli, uniti in un piccolo gruppetto, con i musi lunghi a confabular tra loro contro Gesù e il suo modo di approcciarsi agli altri. Eppure, per quanto possano parlottare fitto tra loro, a lui non gli si possono nascondere i segreti dei cuori. La risposta del Maestro, come sempre, non è tesa a umiliare i suoi avversari, ma a permettere loro di avere un altro punto di vista, perché magari conoscendo quell’aspetto di Dio, possano convertirsi.
Allo stesso modo, anche noi, non possiamo allontanare dalla nostra presenza i nostri nemici, ma come Gesù dirà in un altro insegnamento, siamo chiamati ad amarli e a pregare per loro (Cfr. Lc 6,27-38; vedi approfondimento al link in basso).

Allo stesso modo, però, siamo invitati a non imitare il modo di agire dei farisei, evitare le critiche, il pettegolezzo e le mormorazioni. Ben a ragione scrive l’autore del Libro dei Proverbi:

Nel molto parlare non manca la colpa,
chi frena le labbra è saggio (Pr 10,19).

Ricordiamo, infatti, che proprio a causa di chi non seppe tenere a freno la lingua, venne impedita l’opera salvifica di Cristo per un’intera cittadina (vedere link in basso).

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I tre personaggi della parabola
Approfondendo adesso l’insegnamento di Gesù, emerge che esso si fonda su le relazione di tre uomini che fanno parte di una stessa famiglia: un padre con i suoi due figli. Tre uomini senza nome e questo, come sappiamo, è una chiara esortazione al lettore perché presti attenzione al racconto, domandandosi in chi dei tre si identifichi.
Come sappiamo, nella mentalità biblica, e probabilmente non solo essa, il primogenito maschio veniva considerato l’erede del padre, al punto che alla sua morte gli venisse trasmesso non solo il patrimonio economico, ma anche quello spirituale e culturale, al punto tale che il padre riviveva nel figlio (questa era anche la ragione per cui la sterilità di un coppia veniva percepita come una maledizione ed un essere votati inesorabilmente verso la morte).

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In questo contesto culturale, non raramente, il secondogenito si sentiva stretto all’interno degli ambiti famigliari, considerati quasi l’ombra del fratello maggiore. E questo lo vediamo tanto nella relazione tra i figli di Isacco (Esaù e Giacobbe), come anche tra i figli stessi di Giacobbe, di cui l’ultimo nato, Giuseppe, veniva visto con astio dai fratelli perché sembrava polarizzare l’attenzione paterna.

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1. Il figlio minore
Anche, dunque, il figlio minore di questa parabola comprende che non può avere altra via di espressione personale se non fuori dagli ambienti famigliari, anche se c’è da dire che le modalità scelte sono quelle più crudeli possibili:

Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”.

Perché è crudele questa richiesta del figlio minore? Perché sta dicendo che da questo momento in poi, per lui, il padre è morto. Per questa ragioni gli chiede quell’eredità di cui avrebbe potuto godere solo al momento del suo trapasso.
Guardando lui, non possiamo non vedere tante relazioni ingrate e malate dei figli verso i genitori che si relazionano ad essi solo quando hanno bisogno di denaro o che comunque abbandonano in ospizi lager, in attesa che tirino le cuoia.

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Incapace di gestirsi autonomamente, diversamente da come aveva prospettato, lo si vede buttar via la sua vita, e sciupare tutto il denaro del padre, in quei piaceri e godimenti che non gli hanno dato quel senso di pienezza esistenziale che cercava. Al contrario, cade in un baratro dal quale non riesce a rialzarsi. Sprofondato nel fango e nella melma dei maiali (esseri impuri per gli israeliti), viene riconosciuto dal suo datore di lavoro, indegno persino del cibo destinato agli animali.

Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla.

Da lì, la consapevolezza che non si può vivere lontano dalle proprie origini, che forse la vita che viveva non era davvero così pessima come pensava. Ecco dunque, che l’essere calato nel baratro di se stesso, gli consente di rivedere tutta la sua vita passata e le sue relazioni che aveva crudelmente abbandonato.

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Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.

Guardando il contesto nel quale Gesù spiega questa parabola, il figlio minore che torna sui suoi passi, incarna l’agire dei pubblicani: uomini di fede che peccando si sono allontanati da Dio e dalla comunità e che, consci dei propri sbagli, sono alla ricerca di una seconda opportunità. Essi la vedono realizzarsi proprio nella figura del Messia Nazareno che li accoglie senza giudicarli.

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2. Il figlio maggiore
A livello narrativo entra in scena solo successivamente, quando suo fratello torna a casa. Resta una figura silenziosa, solo apparentemente tranquillo. Perché? Perché vive da individualista, per lui c’è solo il suo mondo, del resto non gli interessa. Anche lui ha una relazione malsana col padre, non solo perché si rivela verbalmente aggressivo con lui, ma perché ritiene che la relazione che li tiene uniti non è di tipo famigliare, ma unicamente lavorativa. Rileggiamo:

Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.

Il suo essere individualista si rivela anche nel rapporto mancato, non voluto e non alimentato con il figlio minore. Egli infatti non lo chiama fratello, ma figlio di suo padre.

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Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso.

Non solo. anch’egli ha una relazione malsana col denaro del padre. Se il minore, infatti, chiede un’eredità che non gli spetta, o almeno non ancora, il secondo se ne ritiene il padrone, al punto di potersi permettere di dire al padre come usarlo.
L’atteggiamento del figlio maggiore è quello degli avversari di Gesù: gli scribi e i farisei. A motivo del loro cammino di fede, del loro essere israeliti, sono considerati i primogeniti in relazione a Dio, ma con il lor atteggiamento esclusivista e prepotente nei confronti degli altri, e di Dio stesso, perdono la più grande occasione della loro vita: essere perfetti come quel Padre di cui dovrebbero esserne eredi.

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3. Il padre
È la figura chiave della parabola, il vero protagonista. Tutto ruota attorno a lui, alla sua persona, alla sua relazione con i suoi due figli. Gesù descrive quest’uomo, tenendo lo sguardo puntato all’agire del Padre, in risposta alla provocazione degli scribi e dei farisei.
Il suo agire generoso, comprensivo e misericordioso sembra non solo rimandare all’agire di Dio, ma giustifica anche le scelte di Gesù che non allontana dalla sua presenza, e della sua comunità, i pubblici peccatori.

Si pone come il collante della situazione, cerca di tenere insieme i figli. Con essi si rivela generoso, anche quando non ci sarebbero le condizioni e con una pazienza eroica di fronte alle loro pretese.

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È l’uomo che sa attendere con pazienza il ritorno dei figli. Sta sull’uscio di casa, sempre pronto ad andare incontro del minore pentito o del maggiore presuntuoso. Si relaziona a loro in maniera decentrata, riportando i fratelli gli uni agli altri, ricordando appunto il loro legame. È questo infatti, quello che cerca di spiegare al maggiore che disprezza il fratello:

“Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”

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Conclusione
Gesù dunque rivela il volto di un Dio Padre che è generoso e accogliente, pronto a correre incontro agli uomini qualsiasi sia il loro stato morale. Ma non solo. Ci rivela il volto di un Dio che vuole fare festa con noi. Nel suo cuore non solo non c’è spazio per ira e rancore (avrebbe ben a ragione rimproverare i suoi figli, o persino diseredarli), ma c’è solo gioia e desiderio di instaurare per l’eternità legami fondati nell’amore e nella gioia. Potremo, leggendo questo insegnamento di Gesù, persino capire che in Paradiso ci aspetta la festa più bella che si possa immaginare, una sorta di rave party che non finisce mai. Se la porta d’accesso, dunque, è la riconciliazione perché non provarci? Perché darci per sconfitti prima ancora di tentarlo?

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Nella copertina di questo articolo abbiamo voluto inserire non una bella foto a colori, d’impatto, ma una un po’ sfocata, in bianco e nero. Si tratta di san Pio da Pietrelcina mentre confessava. Egli dedicò molto tempo della sua vita a questo ministero, tanto che durante il Giubileo straordinario della misericordia, voluto da Papa Francesco nel 2016, fu nominato come uno dei santi della misericordia. Egli si dedicava parecchio a questo ministero, non perché costretto dalle folle che richiedevano lui, ma dalla consapevolezza dell’importanza di questo sacramento che letteralmente ci strappa dalle mani del demonio.
È interessante quello che disse a un penitente:

Quando tu mormori di una persona vuol dire che non l’ami, l’hai tolta dal cuore. Ma sappi che, quando togli uno dal tuo cuore, con quel tuo fratello se ne va via anche Gesù”

Padre pio a un penitente

Perché è interessante? Perché anche per padre Pio era chiaro che l’altro, il fratello, è condizione perché noi possiamo salvarci. Amare il nostro prossimo, riconciliarci con lui, accoglierlo anche quando non fa che farci soffrire, diventa per noi quell’opportunità di salvezza che non dovremmo farci sfuggire.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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