Giuda, Pietro e il centurione: tu da che parte stai?

DOMENICA DELLE PALME anno B

LETTURE: Is 50,4-7; Sal 21; Fil 2,6-11; Mc 14,1-15,47

Dopo quasi quaranta giorni, il nostro cammino quaresimale, con i suoi impegni, fatiche, preghiere, digiuni ed elemosine volge al suo epilogo. Ed è tempo per tutti noi per tirare le somme su quello che abbiamo vissuto in queste settimane, le nostre promesse mantenute e quelle tradite, quello che il Signore ha suscitato nel nostro cuore e il rinnovamento che ne è scaturito. Ed ora ci apprestiamo alla settimana più importante dell’anno, talmente importante da essere definita “santa”.

Dal punto di vista liturgico, la Chiesa ci propone di soffermarci a riflettere e meditare sulla passione di nostro Signore Gesù Cristo: su ciò che essa ha significato per i discepoli, per la Chiesa e gli uomini di tutte le epoche.

Nella prima lettura il profeta Isaia parla di un servo sofferente che in qualche modo sembra presagire la figura stessa del Figlio di Dio, nell’atto di donare la sua vita per l’umanità. Leggiamo:

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,

perché io sappia indirizzare

una parola allo sfiduciato.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio

perché io ascolti come i discepoli.

Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio

e io non ho opposto resistenza,

non mi sono tirato indietro.

Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,

le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;

non ho sottratto la faccia

agli insulti e agli sputi.

Il Signore Dio mi assiste,

per questo non resto svergognato,

per questo rendo la mia faccia dura come pietra,

sapendo di non restare confuso.

Is 50,4-7

Il servo di cui parla Isaia è in qualche modo lo stesso profeta, che ha da parte di Dio una missione non facile: portare un messaggio di resa agli israeliti, perché Babilonia, che già assedia il paese, non si dimostri ancora più crudele nei suoi riguardi. Come sappiamo, però, gli israeliti non accettarono quel messaggio, perseguitarono il profeta e alla lunga dovettero fare i conti con la loro ottusità, perché alla fine la parola di Dio attraverso Isaia si rivelò veritiera e il popolo fu costretto a vivere in esilio in terra pagana, completamente sradicato dalla sua cultura e privato della sua identità.

I primi cristiani, come abbiamo detto, videro in questo servo sofferente anche la stessa persona di Gesù e la sua sofferenza e incomprensione: rifiutato e ucciso da quella stessa Gerusalemme in cui solo pochi giorni prima viene accolto trionfalmente.

Servi sofferenti però siamo chiamati ad esserlo pure noi, quando per la coerenza della nostra vita cristiana, e le nostre scelte quotidiane di giustizia e legalità, veniamo derisi dagli altri, tacciati di essere bigotti, emarginati o peggio ancora perseguitati.

In situazioni come queste la Parola di Dio ci invita a tener duro, a non abbassar la guardia, a puntare verso l’alto, verso Dio, verso valori di fraternità nella costruzione di un mondo migliore. Infatti il brano della prima lettura si conclude con parole di grande fiducia: «Il Signore Dio mi assiste». Il nostro Dio che Gesù chiama Padre e l’apostolo Giovanni appella col titolo di “Amore”, non è insensibile di fronte alle sofferenze di chi gli rimane fedele.

Dal canto suo, il vangelo è molto evocativo, anche se pure quest’anno non riusciremo a vivere quella processione, con le palme in mano, che ci rendeva partecipi della folla osannante che accoglieva Gesù, trionfante ed umile cavalcando un puledro d’asino, a Gerusalemme.

La lettura del vangelo di questa domenica spazia per ben due capitoli, e non riuscendo a commentarlo tutto, oggi vi propongo una riflessione su non tanto su una parte del vangelo, quanto su tre personaggi in particolare: Giuda, Pietro e il centurione.

Leggiamo adesso il tradimento di Giuda:

Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un ladro siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!».

Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Mc 14,10-11; 43-52

A differenza degli altri evangelisti, che scrissero alcuni anni dopo, Marco non motiva il gesto dell’apostolo. A quanto pare il tradimento dell’Iscariota sembra motivato dal semplice odio per il Messia. Come si può ben notare, non svende Gesù per trenta denari, questo lo riporta Matteo (Cfr. Mt 26,14-15), al contrario i sommi sacerdoti sollevati dalla proposta di Giuda decidono spontaneamente di ricompensarlo con del denaro.

L’arresto avviene col favore delle tenebre e ad arrestare il rabbi di Nazaret si presenta una folla armata aizzata dal potere religioso dell’epoca. Come se già questo non fosse sufficientemente grottesco, Giuda pensa bene di tradire Gesù non con un bacio qualsiasi, ma con il bacio dell’intimità, il bacio con il quale i discepoli salutavano con riverenza e affetto il loro maestro. Il verbo, infatti, riportato dall’evangelista Marco è κατεφίλησεν.

Cosa ci insegna questo? Ci insegna che se davvero ci allontaniamo da Dio, scendiamo veramente in basso, finiamo per essere la caricatura di noi stessi e finiamo per tradire il nostro prossimo, l’innocente, nella maniera più subdola che esista. Prima di giudicare l’Iscariota, siamo chiamati a fare un cammino di introspezione e renderci conto che un’anima non riconciliata non raramente finisce per ricalcare le orme del traditore. È per questo che don Primo Mazzolari, in una sua celebre omelia, definisce Giuda nostro fratello, un uomo non molto diverso da noi quando calunniamo, tradiamo la fiducia, ci comportiamo da pusillanimi quando dobbiamo dare una testimonianza di fede, quando la nostra strada è quella della doppiezza e dell’ipocrisia.

Accanto a Giuda si staglia un’altra figura, quella di Pietro. Un uomo che ce la mette tutta per seguire fedelmente Gesù, che gli fa grandi promesse, ma alla fine si deve scontrare con la sua fragilità.

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto:

Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». 

Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.

Mc 14,26-28

Qual è la differenza tra i due discepoli? L’uno agisce in mala fede e compie il male solo per il gusto di farlo, il secondo invece è intenzionato al bene ma si scontra con i suoi limiti. Il primo non si pente e muore in un peccato di condanna, il secondo si converte e si salva.

Allora domandiamoci: e noi? Da che parte stiamo? Ci rendiamo davvero conto che non c’è vera conversione senza Sacramenti? Senza Riconciliazione? Tra Giuda e Pietro il passo è breve!

Il terzo personaggio è il centurione, un uomo pagano, complice delle sofferenze del Cristo, che però ai piedi della croce, al vederlo spirare, lo riconosce come Figlio di Dio:

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».

Mc 15,33-39

L’evangelista Marco struttura tutta la sua opera intorno alla scoperta dell’identità di Cristo. non è un caso che a metà del vangelo si trova appunto la confessione di Pietro (Cfr. Mc 8,27-30). Come quel centurione ognuno di noi è chiamato a riconoscere la vera identità di Cristo prima che nella platealità degli eventi miracolosi, nella sua morte redentrice a favore di tutto il genere umano. Solo con lo sguardo contemplativo del vero uomo di fede, è possibile riconoscere nell’impotenza di una morte atroce ed umiliante, l’onnipotenza di un Dio che si dona. Allo stesso siamo chiamati a fare un’esperienza della presenza di Cristo nella nostra vita, a partire dalle nostre croci personali, e soprattutto riconoscerlo permanendo ai piedi delle croci dei nostri fratelli ammalati, bisognosi, emarginati.

Così la liturgia della Parola di questa domenica e di tutta la settimana santa, ci invita a mettere al centro della nostra contemplazione la passione e la croce di Cristo, vedendolo non appeso al patibolo, ma innalzatolo su quella croce che è il suo trono, l’altare in cui si offre per la nostra salvezza, il talamo dove accoglie in mistiche nozze ogni anima che a lui si dona.

In queste settimane, in qualche modo, grazie alla liturgia della Parola, lo abbiamo accompagnato durante i suoi 40 giorni deserto, poi con i discepoli siamo saliti sul Tabor, in sua compagnia siamo stati di notte insieme a Nicodemo che aveva una reputazione da difendere per permettersi di incontrarlo di giorno. Gli siamo stati accanto quando ha cacciato i mercanti dal tempio, e finalmente lo abbiamo accolto nella Gerusalemme della nostra vita, della nostra casa, della nostra comunità e da lì lo abbiamo seguito fino al Calvario. Ma la morte, ricordiamocelo, non ha mai ‘ultima parola. L’evento della croce non può essere compresa pienamente se non insieme al mistero della Risurrezione, di colui che morendo dona la vita e risorgendo ci ammette alla vita eterna.

Spero che questo articolo ti sia stato utile. Se hai domande, o hai bisogno di spiegazioni o approfondimenti, non esitare a contattarmi, puoi farlo nella sezione commenti più in basso o contattandomi direttamente via email. Metti in circolo la gioia della Parola, condividi sui tuoi profili social questo articolo e usa l'hashtag #condividilagioia.

Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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