Lo Spirito Santo come fonte di acqua pura che zampilla in noi

Prima lettura
Dal libro della Genesi (11,1-9)

Tutta la terra aveva un’unica lingua e uniche parole. Emigrando dall’oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono.
Si dissero l’un l’altro: «Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco». Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: «Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra».
Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno tutti un’unica lingua; questo è l’inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro».
Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.

La Chiesa ci fa mettere in parallelo il brano della torre di Babele con quello di Pentecoste. E in realtà Pentecoste risana i danni che l’umanità aveva progettato a Babele e spiega qual è il vero modo per vivere insieme.
Il contesto è quello della deportazione babilonese, epoca in cui presumibilmente ha preso vita questo testo con il quale il popolo Giudeo intendeva prendersi gioco del popolo dominante, ma anche trovare conforto nel pronto intervento divino che avrebbe messo fine alla superbia di quegli uomini e liberato il popolo eletto perché tornasse alla propria terra.
Nelle parole degli “uomini della terra” si riconosce la politica oppressiva di Babilonia:

«Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra»

L’intento è quello di racchiudere in un’unica cultura, lingua e religiosità tutte le popolazioni soggiogate, tra cui il popolo giudaico. Un appiattimento culturale e religioso che avrebbe permesso al potere oppressore di poter governare su di essi con maggiore libertà.
Tuttavia Babilonia, popolo pagano, non fa i conti col Dio d’Israele il quale non resta impassibile di fronte al dolore e del quale si dice:

Il Signore scese

Questo particolare atteggiamento è molto interessante, perché diventerà caratteristica dell’azione di Gesù Cristo, tanto che san Paolo, nel cosiddetto inno kenotico tratto dalla lettera ai Filippesi, dirà di lui:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù:
egli, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.

Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
“Gesù Cristo è Signore!”,
a gloria di Dio Padre (Fil 2,5-11).

L’invito, dunque, è di non disperare mai e a saper attendere i tempi di Dio: egli è colui che scende, che si china sul dolore degli uomini per porvi rimedio in maniera definitiva. Leggiamo infatti:

Il Signore li disperse di là su tutta la terra

Babilonia voleva fondare il comune vivere tra gli uomini, sotto il dominio dispotico di un imperatore che intendeva appiattire tutte le culture e tutte le diversità, per poter meglio controllare le popolazioni a lui assoggettate. Un piano tanto diabolico quanto attuale, se si pensa ai regimi totalitari degli ultimi secoli.
Tuttavia col suo intervento, Dio distrugge quel piano perverso, perché la convivenza tra gli uomini non venga appiattita da un unico pensiero dominante, ma sia sinodale e soprattutto fondata sull’amore non sulla paura e sulla prevaricazione.
In particolar modo, lo vedremo nella prima lettura della Messa di Domani, dove con la discesa dello Spirito Santo i discepoli per proclamare Cristo, si fanno capire da tutti gli altri popoli, non parlando un’unica lingua comune, né obbligando alla conversione, ma accogliendo la diversità di cultura delle altre popolazioni e proponendo la fede cristiana come cammino di liberazione e felicità.

Vangelo
Dal vangelo secondo Giovanni (7,37-39)

Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù, ritto in piedi, gridò: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva».
Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. 

Il brano evangelico si apre con le parole di Gesù:

«Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva»

Si dice che l’uomo può resistere più tempo senza mangiare che senza bere e che dopo poche ore di disidratazione tutto il corpo comincia a risentirne gravemente. Allo stesso modo per Gesù il nostro attingere allo Spirito Santo deve diventare un’urgenza di vita e di morte e che se non ci abbeveriamo alla sua fonte, dopo un po’ la nostra anima, come il corpo, può morire.
Il nostro tempo ci sta offrendo diversi esempi di uomini dall’anima inaridita e morta, gente che è incapace di relazioni vere, di riconciliazione, di apertura verso l’altro con sincerità. Dall’uso smodato della tecnologia, alla dipendenza dai social network, ne esce una generazione (non necessariamente solo di giovanissimi) che è incattivita, sola e irrimediabilmente triste.

Dalle parole di Gesù che ci invita ad attingere da lui l’acqua pura e fresca di una rinnovata relazionalità col Padre e con lo Spirito, veniamo mossi ad uscire dai nostri spazi angusti, i quali per quanto confortevoli finiscono per essere stantii, e ci invitano a rischiare in un rinnovamento relazionale verso il nostro prossimo.
Ma non solo. Gesù continua a parlare offrendoci un ulteriore spunto di riflessione: divenire sorgenti della stessa acqua di cui ci siamo abbeverati, a favore dei fratelli. Difatti, spesso nella nostra vita spirituale ci sentiamo come se fossimo unicamente dei soggetti ricettori della grazia di Dio. Questo sarebbe vero se Gesù non avesse aggiunto:

Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva

L’invito che qui il Signore ci fa è che una volta abbeverati alla fonte dello Spirito Santo, possiamo poi a nostra volta, donarlo agli altri, perché anche la loro vita venga rigenerata. Alla luce di questo comprendiamo innanzitutto come la vocazione del cristiano sia quello di essere collaboratore di Cristo nell’opera di salvezza delle anime, ma in maniera anche più concreta, che l’individualismo, la chiusura relazionale, l’orgoglio, sono atteggiamenti contrari al Battesimo: si muovono in un senso diametralmente opposto a Cristo.

CONCLUSIONE
Cari amici, e amiche, che leggete questo approfondimento biblico, Gesù non ci vuole come soggetti passivi nella sua Chiesa, ma membri attivi del suo corpo mistico, suoi soci nell’opera redentrice dell’umanità. Sia questa solennità di Pentecoste un motivo per rinnovare il nostro slancio missionario per vivere con maggiore entusiasmo, gioia e coraggio la nostra fede.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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