V domenica di Pasqua anno B
At 9,26-31; Sal 21; 1 Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
Il titolo di questo articolo è la provocazione che in qualche modo ci viene dalla liturgia della Parola di questa quinta domenica di Pasqua.
Il frutto della fede di Barnaba
La prima lettura (At 9,26-31) ci presenta i primi passi di Saulo all’interno di una comunità cristiana che fa fatica ad accoglierlo, perché ricorda bene chi è quell’uomo, come ha perseguitati gli altri cristiani e abbia assistito alla lapidazione del protomartire Stefano. Se la paura dei cristiani è in qualche modo giustificabile, tuttavia non lo è mai il pregiudizio, che è poi il motivo frenante dell’accoglienza nei confronti del nuovo arrivato.
Tuttavia, l’unico in grado di un grande atto di fiducia è generosità, inaspettatamente, è un anziano: Barnaba. Lui correrà il rischio di accogliere il persecutore della prima cristianità e di presentarlo agli Apostoli. Frutto della fede di quest’anziano uomo di Dio è aver dato alla cristianità il suo più grande evangelizzatore.
Questa non può che essere una forte provocazione per tutti noi: oggi come allora la gente ha bisogno di essere accolta al di là della sua storia, al di là dei suoi errori pregressi. Il mondo oggi ha bisogno di cristiani, di uomini e donne, capaci di ascolto dell’altro, senza pregiudizi, ha bisogno del nostro sostegno per poter crescere ed essere in qualche modo motivo di beneficio anche per noi.
La provocazione dell’Apostolo Giovanni
La seconda lettura ci offre la meditazione di un breve brano della prima lettera di San Giovanni (1Gv 3,18-24). L’autore del brano ci invita ad amare non a parole, ma con i fatti. Ecco, in breve battute la sintesi di cosa sia l’amore cristiano: non un semplice romanticismo, né un tenerume a buon mercato, ma vita concreta, esperienza, fatti appunto. Con una nota di ironia l’autore britannico Charles Dickens parlava di filantropia telescopica, l’amore a distanza: ovvero l’interesse del tutto egocentrico di alcuni borghesi che fingevano di avere a cuore certe situazioni umanitarie lontane, mentre sono del tutto disinteressati per la sofferenza di chi è loro accanto. E in questa ipocrisia, non raramente, ci cadono tanti cristiani, cosiddetti praticanti. Praticanti forse di riti ed esteriorità, ma di amore vero e concreto al quanto carenti.
Il Vangelo

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli» (Gv 15,1-8).
Nell’insegnamento di Gesù di questa domenica, Gesù rivela un volto del Padre molto singolare: Dio è come un agricoltore. Egli, cioè, si propone alle nostre vite non come un re dispotico, un padre-padrone dittatore, ma come un agricoltore che si rimbocca le maniche perché tu stia bene, sia felice e la tua vita sia un continuo rifiorire. Il Dio di Gesù, non è il Signore degli eserciti, l’Altissimo e l’Irraggiungibile, ma un Padre che si sporca le mani per la sua creatura, un Dio profondamente impegnato per la felicità dell’uomo.
Si tratta di una prima provocazione che siamo chiamati a cogliere: dalla tenerezza di Dio che sperimentiamo nella nostra vita, siamo chiamati ad amare il nostro prossimo allo stesso modo.
«ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto»
La potatura rende il tralcio più fecondo. Tuttavia si tratta di sempre un taglio. Allo stesso modo, le prove della nostra vita. possono diventare, per ognuno di noi, occasione di crescita. È necessario perdere linfa e sembrare di non farcela per poter rifiorire.
«Rimanete in me e io in voi»
Gesù ripete per 4 volte il verbo rimanere, ciò indica che si tratta di qualcosa davvero importante e che non è il caso di tralasciare. Viviamo una vita frenetica e pensiamo che la nostra giornata più sia movimentata e più abbia senso. Viviamo spostamenti rapidi e nulla più è davvero stabile, ma tutto diventa in qualche modo, liquido, provvisorio. Basti pensare alle relazioni affettive, al calo dei matrimonio e così via. Lì dove la relazione viene banalizzata, Gesù invita a rimanere. Si tratta di un permanere affettuoso nella relazione con lui.
Gesù ci mostra un Dio che non soltanto ci è vicino, prossimo. Il Dio dei cristiani non è solo un Dio-con, ma un Dio-in, ben a ragione Teresa d’Avila nella sua opera Cammino di perfezione, commentando la preghiera del Padre nostro, affermava:
Immaginiamo, dunque, che dentro di noi ci sia un palazzo di una enorme ricchezza, un edificio tutto d’oro e di pietre preziose, quale, infine, si conviene a un tale Signore; pensate che voi contribuite, com’è vero, al suo splendore, non essendoci alcun palazzo di tanta bellezza che regga il confronto con un’anima pura e piena di virtù. Più queste sono elevate, più le pietre preziose risplendono; pensate, inoltre, che in questo palazzo abita il gran Re che si è compiaciuto di essere vostro Padre e che siede su un trono di grande valore: il vostro cuore.
Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, 28,9
Questo reciproco permanere, noi in lui e lui in noi, emerge in maniera ancora più evidente nell’Eucaristia, lì dove il Figlio di Dio entra nell’uomo, lo inabita e con esso diventa una sola cosa: i due diventano consanguinei e concorporei.
Ecco allora un’altra provocazione per tutti noi: dove cerchi Dio? Qual è il tuo luogo di riferimento quando vuoi avere una relazione con lui? Lui che è in noi, lì ci invita a trovarlo. Oggi siamo chiamati a comprendere che prima di incontrare Cristo all’interno di una Chiesa, dobbiamo saperlo incontrare negli occhi del fratello, negli occhi di un marito brontolone o di una moglie pignola. Se prima non lo cerchiamo lì, come possiamo pretendere di incontrarlo nell’alto dei cieli?
«Come il tralcio non può portare frutto da se stesso.. così neanche voi…»
L’attaccamento a Cristo per un cristiano non può essere un fatto opzionale, un hobby, qualcosa per cui ricordarsi giusto un giorno alla settimana. Qui si tratta di riconoscere che non c’è vita senza Cristo. E Dio non voglia che finiamo per vivere come viti dalle tante foglie ma senza frutti. Sarebbe davvero una vita cristiana triste, fallita.
Un ulteriore aspetto è da cogliere è che la vite non fa il frutto per se stesso: non ne gode. Allo stesso modo la nostra vita ha senso solo se essa è vissuta nell’ottica della donazione.
«senza di me non potete far nulla»
Per Gesù il “fare” dei discepoli non è mai qualcosa di individualistico, ma completamente legato a una relazione, a una relazione con lui, il resto è nulla, vuoto, inutile. Come la vite, siamo chiamati a renderci conto che come uomini e donne non bastiamo mai a noi stessi, abbiamo bisogno che Dio ci renda completi, in lui sono affondate le ns radici.
Spero che questo articolo ti sia stato utile. Se hai domande, o hai bisogno di spiegazioni o approfondimenti, non esitare a contattarmi, puoi farlo nella sezione commenti più in basso o contattandomi direttamente via email. Metti in circolo la gioia della Parola, condividi sui tuoi profili social questo articolo e usa l'hashtag #condividilagioia.
- Gesù, l’adultera e i tiratori di pietre all’epoca dei social
- La risurrezione di Lazzaro e il coinvolgimento concreto del cristiano del III millennio
- «Vuoi guarire?«». La proposta di Gesù al malato di Gerusalemme e a tutti noi
- Solenni sette suppliche a San Giuseppe
- Perché la sofferenza dell’uomo? La risposta di Gesù ai discepoli
3 pensieri riguardo “Cosa dicono le tue opere di te?”