«Non sia turbato il vostro cuore». Cosa significa veramente?

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.
Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.
In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Gv 14,1-12).

CONTESTO
Il brano de Vangelo di questa domenica si situa all’interno di quella gande sezione dell’opera giovannea che è l’ultima cena e che occupa ben cinque capitoli (Gv 13-17). In precedenza abbiamo avuto l’occasione di commentare alcuni brani di questi capitoli, per cui rimandiamo ai link in basso per chi desiderasse approfondirli.
Si tratta comunque, di discorsi di Gesù atti a fondare la comunità dei discepoli nella carità fraterna, nella speranza e nella gioia, così da permettere in loro il giusto fondamento per poter continuare nella storia e nel mondo la sua missione salvifica.

«NON SIA TURBATO IL VOSTRO CUORE»
Il brano si apre con una esortazione di Gesù: un invito teso a fare in modo che nessuno scombussoli il cuore dei discepoli. Quello che riteniamo interessante approfondire, è il turbamento al quale richiama Gesù. Il verbo greco utilizzato dall’evangelista è ταράσσω, che implica non semplicemente un turbamento interiore, ma un vero e proprio scombussolamento, un sorta di terremoto, uno scossone destabilizzante.
Si tratta di un verbo particolarmente caro all’evangelista, nella sua opera viene utilizzato per ben sei volte e non sempre indica qualcosa che riguardi l’uomo nella sua sfera spirituale e morale. Egli infatti lo usa all’interno del quinto capitolo quando parla delle acque miracolose di una piscina a cui veniva impresso un forte moto ondoso. Leggiamo:

Dopo questi fatti, ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. A Gerusalemme, presso la porta delle Pecore, vi è una piscina, chiamata in ebraico Betzatà, con cinque portici, sotto i quali giaceva un grande numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici. Si trovava lì un uomo che da trentotto anni era malato. Gesù, vedendolo giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”. Gli rispose il malato: “Signore, non ho nessuno che mi immerga nella piscina quando l’acqua si agita. Mentre infatti sto per andarvi, un altro scende prima di me”. Gesù gli disse: “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”. E all’istante quell’uomo guarì: prese la sua barella e cominciò a camminare (Gv 5,1-9).

Quindi il turbamento al quale Gesù fa riferimento non è semplicemente un dispiacere di qualche minuto, ma qualcosa di veramente destabilizzante. Infatti l’evangelista lo userà ancora per indicare i sentimenti di grande commozione di Gesù al vedere quanti piangevano la morte del suo amico Lazzaro (Cfr. Gv 11,1-44). Leggiamo un passaggio:

Quando Maria giunse dove si trovava Gesù, appena lo vide si gettò ai suoi piedi dicendogli: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!”. Gesù allora, quando la vide piangere, e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente e, molto turbato, domandò: “Dove lo avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù scoppiò in pianto. (Gv 11,32-35).

Ma non solo. Per ben due volte, giusto poco prima del nostro brano, Gesù prova questa grande angoscia interiore: al suo annunziare l’imminente passione (Cfr. Gv 12,27) e nell’ultima cena quando rivelerà che uno dei suoi amici più fidati sta per tradirlo (Cfr. Gv 13,21). Leggiamo questi passaggi:

Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome”. Venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!” (Gv 12,27-28).

Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: “In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà” (Gv 13,21).

Ora però l’attenzione di Gesù si sposta sui discepoli e si preoccupa perché loro non passino lo stesso sconvolgimento interiore che ha vissuto lui. Si tratta di qualcosa di tutt’altro che marginale, perché ci rivela la tenerezza del Nazareno nei confronti dei suoi discepoli, tanto che il suo non è nemmeno un semplice invito come a noi può sembrare. Tanto come nel vangelo di oggi, come lo farà ancora più avanti, al versetto 27, Gesù usa dei veri e propri imperativi: ταρασσέσθω.
Gesù comanda in maniera perentoria i discepoli a non lasciarsi sconvolgere l’animo per la sua dipartita: essa infatti, come vedremo nel proseguire del nostro brano, è tesa a un bene superiore.
Questo imperativo del Maestro, oggi, non può non metterci in crisi, e riconoscere che si caratterizzi come un problema morale, un peccato che necessita una confessione, il far vacillare la nostra speranza, la nostra fede gioiosa, di fronte alle prove della vita. CRISTO CI VUOLE GIOIOSI E FIDUCIOSI IN LUI, non ci sono vie di mezzo.

«ABBIATE FEDE IN DIO E ABBIATE FEDE ANCHE IN ME»
Gesù è consapevole che quello che sta chiedendo ai discepoli è tanto: si tratta di riuscire a mantenere una sorta di impassibilità d’animo, di fronte a quello che gli sta per capitare e alla conseguente separazione da loro. Per questo motivo li invita a credere in lui, ad aver fiducia nella bontà del Padre, nella sua tenerezza e provvidenza.
La gioia alla quale siamo chiamati sarà possibile sperimentarla, solo nella misura in cui non dimentichiamo le grandi opere che Dio ha compiuto nella nostra vita. È da questa memoria grata e riconoscente, che è possibile porre le basi perché non ci lasciamo sconvolgere dagli eventi della vita, dalle prove di ogni giorno. Questo perché riconosciamo che il nostro è un Dio fedele, che mantiene la parola data, che ci è vicino, tanto prossimo da aver fatto del nostro cuore il suo trono: se abbiamo fatto esperienza della sua misericordia, del suo amore prodigioso lungo il corso della nostra esistenza e in momenti precisi della nostra vita, perché non dovrà essere ugualmente presente ed efficace nel futuro?

LASCIARE CHE CRISTO AGISCA IN NOSTRO FAVORE
Una volta assicurato il fondamento per cui i discepoli sono chiamati a non lasciarsi sballottolare spiritualmente da quello che sta per capitare, Gesù rivela il motivo del suo allontanamento: ha una missione da compiere a nostro favore. Rileggiamo:

Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi.

È necessario che il Cristo affronti la sua passione e ancora di più lo è la sua ascensione, il suo allontanarsi, solo fisicamente – vedi infatti quello che comprendono i discepoli nel Vangelo secondo Luca al link in basso –, perché la sua missione non si conclude con la morte e la Risurrezione, ma col preparare un posto nei cieli, o meglio, nell’intimità famigliare delle tre Persone divine, per coloro che crederanno in lui (vedi link in basso).

Questo reciproco permanere del Padre nel Figlio e dei discepoli nel Figlio che per il Battesimo ci eleva dallo stato creaturale e quello di figli di Dio, verrà ripreso da Gesù sempre nel suo insegnamento nell’ultima cena, quando userà il simbolo della vite e dei tralci. Si tratta di appena nove versetti in cui l’imperativo del rimanere in lui viene ripetuto otto volte di cui due sono imperativi. Leggiamo:

Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore (Gv 15,1-9).

Questo preparare un posto nella vita intradivina, come viene specificato nella parabola della vite e dei tralci, dunque, non coinvolge il credente solo in una vaga speranza del futuro, ma si tratta di qualcosa che lo riguarda nell’oggi. Il permanere con Cristo, la possibilità di partecipare alla famigliarità con le tre Persone divine, riguarda l’oggi del cristiano. Egli pregusta la bellezza di questa unione intima e affettiva con la Trinità nel presente della sua esistenza e che poi vivrà in pienezza alla fine della sua esistenza. Per questa ragione in due altri passaggi afferma:

Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà (Gv 12,26).

Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23).

Ma in tutto questo cosa deve fare il discepolo? Quali gesti, opere o scelte deve compiere perché se lo meriti? Nulla, se non quello di non farsi turbare, di mantenere fiducioso e gioioso il suo cuore, nell’amore vicendevole: il lavoro lo farà Cristo per noi. È lui che v a preparare un posto, non noi a costruircelo. Questo ancora ci fa capire la grandezza del nostro Dio, dove tutto per noi diventa un dono: dalla salvezza, alla sua tenerezza, ai sacramenti che ci aiutano nel cammino della nostra esistenza, al percepire la sua presenza intorno a noi e nel nostro cuore. A noi non resta che farlo agire, che Dio sia Dio e non ergerci a suoi giudici. A noi, non resta che lasciarci afferrare da lui, lasciarci condurre, anche quando il cammino che ci propone è strano, difficilmente comprensibile nel suo senso, oscuro o talvolta paradossale. A noi, ancora, non resta che lasciarci condurre da lui, lasciare che la sua presa sia salda su di noi, permanere alla sua presenza, perché quello è l’unico cammino certo e sicuro per la salvezza, anche quando inevitabilmente si passa attraverso croci e sofferenze.

TOMMASO E FILIPPO: IL CAMMINO INTERIORE DEI DISCEPOLI
Nella seconda parte del brano di oggi sono i discepoli a prendere la parole. In particolare l’evangelista annota le voci di Tommaso e Filippo. Colti dalla grandezza delle parole del Maestro, forse persino troppo belle per sembrare vere, chiedono delucidazioni.
Nelle loro parole potremmo leggere una certa sfiducia nell’operato del Maestro. Il primo, infatti, chiede che gli venga indicata la via (come per dire che nel caso il Nazareno fallisse nel proposito egli possa percorrerla da solo). Il secondo, invece, intende persino andare oltre, chiedendo di poter almeno vedere da lontano il Padre.

Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?».

Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta».

Ad entrambi Gesù risponde con grande pazienza, aiutandoli, qual vero Maestro, li aiuta ad entrare nel mistero della grandezza di Dio, della sua infinita tenerezza. Per questo si presenta come unico mediatore di salvezza, Pontefice assoluto con il Padre.

Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto.

Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere.

IMPARARE A PASSARE DAL VEDERE AL CREDERE
Ci avviamo alla conclusione di questo approfondimento. Ad offrirci il titolo di questo paragrafo, sono le ultime parole di Gesù, quelle con le quali si conclude la sezione narrativa di oggi:

Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.

Dalla visione di una via o di una rivelazione divina, come le richieste di Tommaso e Filippo, Gesù invita ad andare oltre: alla fede. Si tratta di un passaggio non scontato e che talvolta sperimentiamo anche noi: se è difficile fidarsi del prossimo che si vede, quanto di più lo è di un Dio che non si vede. Eppure il passaggio è necessario, perché solo nella misura in cui sarà possibile il salto della fede, potranno vedersi compiere meraviglie ancora più grandi nella vita. È lo stesso Figlio di Dio a confermarlo:

In verità, in verità io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre».

Cosa significa questo, cosa comporta? La realizzazione della promessa di Gesù, quella raccontata nella parabola della vigna e dei tralci: se Cristo è rivelazione del Padre in parole e opere, allo stesso modo i discepoli lo sono del Figlio di Dio compiendo le sue opere e annunciando le sue parole. Il Nazareno continuerà ad operare nel dispiegarsi della storia attraverso i suoi discepoli, la Chiesa. Questo comporta una responsabilità nei confronti della nostra vita che non può continuare a scivolarci addosso, ma che dobbiamo imparare a orientarla completamente nella salvezza delle anime a partire dal nostro stato di vita, ognuno a proprio modo e nella specificità della sua vocazione.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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