Gioire al tempo della prova

III domenica del tempo ordinario – anno A

Is 8,23b–9,3; Sal 26; 1 Cor 1,10-13. 17; Mt 4,12-23

Il titolo di questo nostro approfondimento biblico è teso a riassumere quello che la liturgia della parola intenda comunicarci in questa terza domenica del tempo ordinario.
Infatti, tanto la prima lettura quanto il vangelo si stagliano non solo come promessa di speranza di un futuro intervento divino nel momento di prova del giusto, quanto possibilità di farlo nel momento stesso in cui si affrontano queste difficoltà a motivo stesso della fedeltà di Cristo, della consapevolezza che il nostro è un Dio provvido e capace di grande tenerezza e compassione.

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In questi anni abbiamo avuto modo di affrontare da diverse prospettive il tema della gioia cristiana che ha solide fondamenta bibliche. Al tema abbiamo dedicato un’intera sezione del nostro blog. Per questa ragione per chi desiderasse approfondire ulteriormente questo tema, può cliccare sul link qui accanto: La Parola è gioia.

Prima lettura
Dal libro del profeta Isaia (Is 8,23b–9,3)

In passato il Signore umiliò la terra di Zàbulon e la terra di Nèftali, ma in futuro renderà gloriosa la via del mare, oltre il Giordano, Galilea delle genti.
Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.
Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.
Perché tu hai spezzato il giogo che l’opprimeva,
la sbarra sulle sue spalle,
e il bastone del suo aguzzino,
come nel giorno di Mádian.

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Contesto
Nel momento in cui il profeta scrive, Israele sta vivendo il periodo più buio e opprimente di tutta la sua storia: la deportazione in babilonia, con la conseguente privazione non sol della libertà, ma di tutta la sua identità culturale e religiosa. La politica del regno babilonese, infatti, era tesa alla distruzione delle diversità culturali, all’appiattimento dell’altrui diversità, perché tutto e tutti fossero assimilati all’identità dominante.
Da qui l’accorata preghiera del Salmista:

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Lungo i fiumi di Babilonia,
là sedevamo e piangevamo
ricordandoci di Sion.
Ai salici di quella terra
appendemmo le nostre cetre,
perché là ci chiedevano parole di canto
coloro che ci avevano deportato,
allegre canzoni, i nostri oppressori:
“Cantateci canti di Sion!”.
Come cantare i canti del Signore
in terra straniera?
Se mi dimentico di te, Gerusalemme,
si dimentichi di me la mia destra;
mi si attacchi la lingua al palato
se lascio cadere il tuo ricordo,
se non innalzo Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia (Sal 137,1-6)
.

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La luce nella tempesta
Pur immerso nelle tenebre più fitte dell’oppressione e dello scoraggiamento, al popolo viene chiesto di farsi cercatore di una luce dapprima fioca, ma che ben presto diventi fulgente. Rileggiamo:

Il popolo che camminava nelle tenebre
ha visto una grande luce;
su coloro che abitavano in terra tenebrosa
una luce rifulse.

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Riteniamo particolarmente interessante come sotto il segno della luce, non semplicemente si celi uno strumento divino atto a riscaldare il cuore sfiduciato degli uomini, ma addirittura Dio stesso. Lui è la luce degli uomini, la loro speranza, la loro guida nelle notti oscure delle loro esistenze e dei tempi di prova. Abbiamo avuto modo di affrontare questo tema quando nel tempo di Natale abbiamo commentato il prologo del Vangelo secondo Giovanni:

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In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto (Gv 1,1.4-5.9-10).

Nel buio del non senso di questa nostra società sempre più violenta e pagana, siamo abbagliati da tante luci che stordiscono la mente e intorpidiscono la coscienza, eppure siamo chiamati a riconoscere che tra tutte queste una sola sia la luce che non acceca, che guida e dà calore: quella di Cristo.

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Il mistico carmelitano san Giovanni della Croce, con coraggio chiama persino fortunata la notte oscura della prova che stava vivendo, perché grazie ad essa scorse questa luce benevola e fedele di Dio che mai lo lasciava e che al contrario lo guidava con amore in quel periodo così pesante. Per questo nel suo cantico “Notte oscura” afferma:

«Senz’altra luce e guida
se non quella che nel cuore mi ardeva.
Questa mi guidava
più sicura che la luce a mezzogiorno»
(G. della Croce, Notte oscura, vv. 3.4).

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Allo stesso modo, anche noi cristiani del III millennio, possiamo fare la stessa esperienza: stravolgere la consuetudine schiacciante delle nostre fatiche e prove, in una gioiosa opportunità di sperimentare la premura divina che non ci abbandona mai. Eppure mai dobbiamo dimenticare l’arduo compito di un sano discernimento, nel comprendere quale sia la vera luce, quella della bellezza, della comunione fraterna, l’unica in grado di ricondurci a Dio, l’unica che possa guidarci in maniera sicura senza pericolosi sbandamenti esistenziali.

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Dalla luce la gioia
Come abbiamo avuto modo di affermare in altri articoli, Dio non si ferma mai a una semplice grazia donata al suo fedele. Tutt’altro, a lui piace eccedere nel donarsi.
In effetti al suo splendere nel buio della grave prova che Israele sta vivendo, ne aggiunge un’altra. A lui non basta semplicemente essere faro e guida per il suo popolo, né semplicemente dargli la certa speranza che quel tremendo periodo di prova è passeggero e ha i giorni contati, ma va oltre. Continua infatti con queste parole il profeta:

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Hai moltiplicato la gioia,
hai aumentato la letizia.
Gioiscono davanti a te
come si gioisce quando si miete
e come si esulta quando si divide la preda.

Conseguenza della speranza del credente, ottenuta dalla “visione” della luce come presenza divina che riscatta il popolo, si aggiunge la gioia. Per arrivare a questa consapevolezza, è necessario fare un passo indietro e riconoscere come il Figlio di Dio non si sia incarnato semplicemente per dire al mondo che Dio c’è, esiste, ma per dire che Dio è Padre, e in quanto tale è capace di amare, di gesti premura e sentimenti forti nei confronti di un’umanità che non considera semplicemente sua creatura, ma sua figlia.

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Se Dio è Padre, dunque, egli come ogni genitore mette al mondo una vita nuova col solo intento di renderla felice per sempre, mettendo in preventivo che usare ogni singola cellula del suo essere, ogni suo respiro, ogni particella della sua energia perché questo figlio sia felice e lo sia pienamente.

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Il rivelarsi, dunque, come luce smuove già il cuore di Israele che, seppur nella prova, riprende coraggio, animo e gioia di vita perché per quanto complicati siano i meccanismi e le politiche umane per sopprimere una vita umana, foss’anche un intera popolazione come nel caso di Babilonia, nulla e nessuno resisterà alla potente mano di Dio.

Missionari della luce
Tutto quanto abbiamo detto finora, però, non può non smuoverci come cristiani. L’amore di Dio non lascia mai indifferenti, ma impone sempre una presa di coscienza. Se lo accogliamo non possiamo esimerci dalla domanda: e ora? Cosa ne faccio di tutta questa luce, di tutto questo amore? Di tutta questa gioia?

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Quando il Signore si dona, per intima esigenza del cuore umano non sorge solo la gratitudine, ma anche l’impellenza all’imitazione.
Oggi, dunque, siamo chiamati a farci superfici riflettenti della sua luce perché altri fratelli, per mezzo nostro, possano arrivare a lui. Allora dunque, potremo davvero rendere orgoglioso il cuore di Padre del nostro Dio. Ricordiamo infatti quello che lui stesso chiederà al popolo, e a ognuno di noi, poco più avanti:

È troppo poco che tu sia mio servo
per restaurare le tribù di Giacobbe
e ricondurre i superstiti d’Israele.
Io ti renderò luce delle nazioni,
perché porti la mia salvezza
fino all’estremità della terra (Is 49,6).

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 4,12-23)

Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nàzaret e andò ad abitare a Cafàrnao, sulla riva del mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaìa:
«Terra di Zàbulon e terra di Nèftali,
sulla via del mare, oltre il Giordano,
Galilea delle genti!
Il popolo che abitava nelle tenebre
vide una grande luce,
per quelli che abitavano in regione e ombra di morte
una luce è sorta».
Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».
Mentre camminava lungo il mare di Galilea, vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. E disse loro: «Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, che nella barca, insieme a Zebedeo loro padre, riparavano le loro reti, e li chiamò. Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.
Gesù percorreva tutta la Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo.

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Contesto
La narrazione si situa agli esordi della vita pubblica di Gesù. Poco prima c’è stato il racconto del Battesimo nel Giordano e poi i quaranta giorni nel deserto con le conseguenti tentazioni.
Oggi vediamo gli inizi del ministero di Gesù. Riteniamo interessante che il nazareno inizi la sua missione solo dopo che Giovanni il Battista paghi con la vita il prezzo dei propri valori: quelli che dovevano essere anche del re e della sua consorte i quali però non volendoli ascoltare, misero fine alla voce di colui che li proclamava.

Il fatto che Gesù decida di inizia il suo ministero pubblico proprio a Cafarnao, poi, cittadina semipagana ai confini di Israele, non deve poi stupirci, visto che sembra che abbia fatto di quel posto la sua seconda patria (vedi link in basso).

Oltre la prova
Se c’è una cosa che dobbiamo tenere bene a mente è che nessuno per quanto sia potente e per quanto possa ingegnarsi, può fermare Dio con il suo piano di salvezza per l’umanità (vedi link in basso).
È quello che accade in questo caso: Erode volle mettere a morte il profeta vestito di pelli di cammello che gridava nei pressi del Giordano e invitava alla penitenza, ma dopo di lui ne è sorto uno ancora più grande.

Molte potremo passare momenti nella vita che ci sembreranno vicoli ciechi, qualcosa di votato alla fine, un punto di non ritorno. Tanto l’esperienza di Israele nella prima lettura, come quella dell’Israele al tempo di Gesù, ci rivelano, invece, che molto probabilmente dietro quella prova (non voluta da Dio, ma dalla vita, dagli uomini, dalla fragilità della natura umana) si cela qualcosa di più grande: un nuovo inizio.

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Cristo luce del mondo
Concordemente a quanto, qualche decennio più tardi scriverà l’evangelista Giovanni, anche Matteo descrive l’irrompere di Cristo sulla scena dell’umanità, col simbolo della luce
. Per farlo, l’evangelista ricorre alle parole del profeta Isaia, quelle che abbiamo letto nella prima lettura, vedendo in esse il realizzarsi delle promesse divina. Da qui tutta l’introduzione del brano evangelico odierno.

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Una questione di eredità
In ambito contadino si dice che i primi frutti di stagione di un albero, sono quelli più prelibati: sono le primizie della terra che rivelano la qualità dei frutti successivi.
Cosa ha a che vedere questo con il nostro articolo? Beh ci riferiamo alle prime parole di Gesù nel suo insegnamento, quelle con il quale inaugura il tempo di suoi tre anni itineranti per Israele predicando e guarendo il popolo.

Da allora Gesù cominciò a predicare e a dire: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino».

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Si tratta di parole non certamente scelte a caso, se si considera che sono le stesse con le quali Giovanni il Battista esortava chiunque andasse da lui per farsi battezzare e cambiare vita:

 In quei giorni venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” (Mt 3,1-2).

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Gesù non nega quanto detto e fatto da colui che lo ha preceduto, ma lo accoglie come una sorta di eredità spirituale e da essa parte per iniziare il suo ministero.
Guardando il suo atteggiamento oggi siamo chiamati a riconoscere che quello che siamo, quello che abbiamo, lo dobbiamo a chi ci ha preceduto, a chi ha fatto sì che noi avessimo un bagaglio culturale e spirituale di base dal quale partire.

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Nessuno che possa ritenersi davvero cristiano può pensare di dire di essersi “fatto da sé”, ma si è chiamati a riconoscere che nasciamo con un debito di gratitudine verso la famiglia, la comunità e le istituzioni che ci hanno preceduto.

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In un’epoca che tende a fare dell’anziano un vecchio inutile, qualcuno dalle idee superate e antiquate, dai valori non più in linea col vissuto quotidiano, siamo chiamati a riconoscere che un nuovo umanesimo più a misura di uomo, non può non partire che dal riconoscersi tutti vicendevolmente debitori, necessitanti dell’altro e in cui nessuno resti escluso, emarginato, lasciato alle retro file. Non dimentichiamo le parole dell’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani:

Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge (Rm 13,8).

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Rendiamo straordinaria la nostra quotidianità!
Un altro aspetto degno di nota, riguarda il momento e il contesto nel quale Gesù sceglie e chiama a sé i suoi discepoli. È già stato nella sinagoga di Cafarnao, luogo di culto e preghiera di quella piccola città. Eppure non chiama a sé discepoli in preghiera, ma lo fa mentre sono intenti nei loro impegni lavorativi quotidiani.

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Molte volte i cristiani sono tentati di fare un’esperienza mistica nella straordinarietà di un evento: un segno nel cielo, un sogno, attraverso veggenti o immagini miracolose. Se sono in comunione con la Chiesa, si tratta certamente di cose buone e sante, eppure il Signore non aspetta la straordinarietà di un evento per rivelarsi alla nostra esistenza, beneficarci e dirci che ci ama. Oggi Gesù ce lo rivela in maniera chiara e inequivocabile: invitando alla sequela i primi apostoli mentre sono affaccendati nei loro impegni di tutti i giorni.

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Allo stesso modo anche noi siamo chiamati, vivendo alla sua presenza e nella sua grazia, a rendere straordinario ogni nostro compito e lavoro quotidiano.
Cari fratelli e sorelle, non riusciremo mai a vedere il nostro Dio che è nei cieli, se non ci sforziamo a riconoscerlo negli occhi dei nostri fratelli che incrociamo lungo le vie del nostro quartiere, negli occhi di chi ci siede accanto nel banco della nostra chiesa, in chi abita le nostre mura domestiche.

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Con quali occhi ti vedi? E con quali lo fa Dio?
Gesù cammina lungo la riva del lago di Gennesareth e la sua attenzione è polarizzata sul lavoro di un manipolo di uomini rudi, uomini di mare, gente con i calli nelle mani e non troppe conoscenze filosofiche per la testa.
Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, non erano persone che avevano passato la fanciullezza e l’adolescenza tra i banchi di una scuola, ma uomini che si procuravano il cibo col lavoro faticoso delle mani, con il sudore di molte notti passati in barca e di mattine sulle rive del mare a rassettar le reti per la notte successiva.

Ad essi il Maestro si affianca e dice:

«Venite dietro a me, vi farò pescatori di uomini».

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Quella coppia di fratelli si percepivano unicamente come pescatori, e tutta gli abitanti di Cafarnao li riconoscevano come tali: come coloro che portavano il pesce in città per venderlo e ricavarci qualche spicciolo. A loro la gente si rivolgeva non di certo con un linguaggio forbito: erano pescatori, appunto, gente umile… cos’altro aspettarsi?
Eppure Gesù vede in loro dell’altro, un potenziale: pescatori di uomini!

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Lo sguardo di Dio nei nostri riguardi è sempre diverso, più profondo, più propositivo e sicuramente anche più vero. Spesso sviliamo noi stessi, ci trattiamo da inetti, da incapaci. Eppure se il Signore ci ha donato la vita, un motivo deve pur esserci! Non possiamo davvero credere che tutta la nostra esistenza sia frutto del caso.

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Se davvero finiamo per credere che non valiamo a niente e che tutta l’umanità in fin dei conti, non sia buona… perché allora la seconda Persona della Trinità ha deciso di farsi uomo, simile a me e a te? Forse, allora, non siamo così pessimi come crediamo di essere.
Lì dove il mondo non vede che pescatori sempliciotti, Cristo vede pescatori di uomini: gente predisposta alla salvezza di altra gente.

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Se da un lato questo deve imporci una profonda autoriflessione sul senso della nostra vita, sulla grandezza alla quale siamo chiamati, fino ad essere collaboratori di Cristo per la salvezza del mondo, questo impone anche un rinnovamento nel modo in cui percepiamo il nostro prossimo, soprattutto verso coloro che ci hanno fatto del male.

Solo chi ama veramente, o meglio cristianamente, è capace di questo sguardo propositivo. Se lo sguardo di Cristo non si sofferma sul tuo peccato, sui tuoi sentimenti più contrastanti, sui tuo tradimenti, perché tu dovresti farlo con l’altro? Dopotutto Gesù non chiamò San Paolo alla sequela, mentre questo perseguitava i cristiani?
Cari fratelli, puntiamo sulla bellezza, sulla promozione umana e non sui suoi fallimenti, perché il buono che c’è nel cuore dell’uomo, la sua capacità di fare qualcosa di grande,. è superiore al suo peccato, ai suoi sgambetti.

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L’urgenza della sequela
Concludiamo questo nostro approfondimento con l’atteggiamento degli apostoli. Rileggiamo:

Ed essi subito lasciarono la barca e il loro padre e lo seguirono.

L’invito di Gesù ai loro orecchi di uomini non troppo colti dev’essere suonato un po’ strano, incomprensibile, poco chiaro. Eppure è interessante che senza porre domande e chiarimenti, senza star lì a fare statistiche e previsioni se davvero valga la pena mettersi al seguito di uno sconosciuto, lasciano tutto e tutti e se ne fanno discepoli.

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Le due coppie di fratelli hanno compreso che nella loro vita non poteva esserci solo il mare e il lavoro, ma doveva esserci dell’altro molto più grande, molto più bello per cui vale la pena rischiare tutti. Ognuno di noi ha nel cuore il desiderio di una pienezza di vita che non si esaurisce con una certa mediocrità, ognuno di noi dando ad esso nomi diversi ha un desiderio di infinito, di bellezza eterna e santa che non potrà mai provenirci dalla materialità, ma da Dio solo. Per questo i quattro fratelli, senza star lì a pensarci troppo, lasciano lavoro, casa e affetti per seguire il Signore che li ha chiamati.

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Esiste una sorta di urgenza nel discepolato, nella sequela di Cristo, che oggi è rivolta a ognuno di noi che siamo accorsi attorno all’altare e dal quale non possiamo esimerci di accogliere perché è quell’opportunità di riscatto che stavamo aspettando da tempo. Si tratta della possibilità di disimbrigliarci dalle tenebre del vizio, del peccato e della mediocrità alla quale ci costringiamo a vivere per paura di rischiare troppo e che oggi ci viene offerta a noi dal Signore, proprio adesso… che ne faremo dunque? Avremo il coraggio di lasciare tutte le nostre sicurezze, per seguirlo?

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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