Il Battesimo di Cristo al Giordano come provocazione di una vita che sia degna di essere vissuta

In quel tempo, Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui.
Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare.
Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,13-17).

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Un atto di solidarietà
La vita apostolica di Gesù inizia con un atto di umiltà e vicinanza affettuosa nei confronti di tutto il genere umano nella sua condizione di fragilità fisica e, soprattutto, spirituale e morale.
Il battesimo proposto dal suo parente, Giovanni, consisteva in una sorta di lavaggio penitenziale, in cui il pio uomo di fede poteva solo sperare di poter veder rimessa la colpa (questo sarà resa una certezza solo grazie all’opera redentrice di Cristo, vedi articoli ai link in basso). Una volta riemersi dall’acqua del Giordano, che teoricamente avrebbe dovuto contenere il peccato del penitente, questo poteva sperare di iniziare una vita nuova nella grazia di Dio.

Di certo Gesù non aveva bisogno di questo rituale, perché come ben afferma l’autore della lettera agli Ebrei, egli ne era esente:

Dunque, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato (Eb 4,14-15).

La pervasività della grazia divina
Dalla solidarietà di Cristo con quanto di peggio cova nel nostro cuore, tanto da immergersi in esso come nelle acque impure del Giordano, sorge una provocazione che dovremmo sempre tenere ben a mente: non c’è nulla di noi che faccia ribrezzo al nostro Dio. Anche quelle zone d’ombra del nostro animo, lì dove coviamo i sentimenti più contrastanti, anche lì può arrivare la sua luce. Per questo non può esserci peccato che non possa essere da lui rimesso: dobbiamo solo credercelo. Gesù non ha ribrezzo di noi, e noi dobbiamo imparare ad accettarci per quello che siamo, amarci perché lui ci ama.

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Scendere dai piedistalli
Il breve dialogo che intercorre tra Gesù e Giovanni, è quanto mai evocativo: par quasi instaurarsi una sorta di braccio di ferro tra chi intenda assumere un atteggiamento più umile nei confronti dell’altro. Rileggiamo:

Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?».

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Il Battista era al culmine della sua popolarità. Lo abbiamo visto nei precedenti approfondimenti: lui era tutt’altro che alla ricerca di consensi popolari. Anzi, non temeva di rimproverare nessuno: dai soldati, ai pubblicani, per arrivare ai farisei e persino lo stesso re Erode in persona (vedi link in basso).

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Allo stesso modo egli sapeva che il suo ruolo aveva come una data di scadenza: non era altro che l’apripista per qualcuno più grande di lui, che avrebbe battezzato non con acqua, ma con «Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,16; vedi link in basso) e che come Agnello si sarebbe addossato tutti i peccati del mondo (Cfr. Gv 1,29-34; vedi link in basso).

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Per tutte queste ragioni, Giovanni non teme di chinarsi di fronte al Nazareno sopraggiunto per chiedergli il Battesimo che lui offre. Tuttavia la prospettiva di Gesù è più ampia, e parla di un gesto necessario da compiere, al fino di adempire le Scritture:

Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare.

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A cosa si sta riferendo Gesù? La giustizia, che come sappiamo nella Bibbia ha un valore spirituale-consacrativo, e non etico-legislativo, a cui Gesù si riferisce è l’anticipazione del suo mistero salvifico che si realizza nella sua passione, morte e risurrezione. La discesa nelle acque del Giordano, non è altro che il caricarsi del peccato degli uomini, che sarà rimesso nel momento del croce, dal suo fianco squarciato fonte sacramentale per noi credenti. Allo stesso modo, come il suo permanere nelle acque del fiume, rimanda ai giorni del silenzio della sua morte, il suo riemergere da esse, riporta all’evento pasquale della risurrezione.

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L’atteggiamento di reciproca umiliazione sortisce per noi un’ulteriore provocazione: quella di imparare a scendere dai piedistalli, il non pretendere onori e onorificenze, ma avere atteggiamenti di continua umiltà nei confronti dei fratelli, seguendo l’indicazione di San Paolo nella lettera ai Romani:

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La carità non sia ipocrita: detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nel fare il bene, siate invece ferventi nello spirito; servite il Signore. Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera. Condividete le necessità dei santi; siate premurosi nell’ospitalità (Rm 12,-13).

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Facciamoci carico dei pesi degli altri
Dal Battista oggi impariamo che è necessario tornare a guardare i nostri fratelli con occhi diversi. Con lo sguardo proprio di chi serve l’altro, di chi si mette a disposizione del peccato dell’altro non per servirsene, né per ferire in un moto di rabbia per un torto ricevuto, ma perché quel peccato venga rimesso e il fratello ritrovi la bellezza della comunione con Dio.
Giovanni, senza saperlo, dunque, si fa socio di Cristo nell’atto di redimere l’umanità, e perché questo non dovremmo farlo noi? Perché lo stato spirituale e morale di un fratello non dovrebbe interessarci? Chi l’ha detto che uno stato di peccato è qualcosa che lede solo chi lo compie? L’ultima persona che la pensava così era un altro fratello: Caino. Leggiamo inbfatti nel quarto capitolo della Genesi:

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Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?”. (Gen 4,9).

La Bibbia è piena di personaggi tristi, incupiti e ingobbiti dalle loro relazioni malsane. Essi riusciranno a trovare pace solo quando finalmente riusciranno a perdonare e a farsi perdonare (approfondisci al link in basso). E perché noi dovremmo perdere l’opportunità di essere strumento di riconciliazione?

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L’amore di Cristo per il peccato dell’umanità, la dedizione con il quale il Battista si concede agli uomini perché si convertano, è un amore scandaloso, che spiazza, lascia intontiti e allo stesso tempo impone di fare lo stesso, spinge all’imitazione, a darsi una mossa per gli altri proprio come qualcun altro lo ha fatto per noi. L’amore, infine, scomoda sempre! Non lascia mai indifferenti, impone una presa di coscienza, una risposta.

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Accondiscendere alle assurdità di Dio
Ritornando ancora per un momento, nel confronto tra Gesù e il suo parante Giovanni, riteniamo interessante come alla risposta di Gesù, il dialogo si interrompa, forse anche bruscamente. Infatti il Battista non replica oltre e l’evangelista annota semplicemente:

Allora egli lo lasciò fare.

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Come per il Battista, a volte anche a noi il Signore sembra che ci chieda cose assurde, incomprensibili, persino contraddittorie con il comune buon senso di un ragionamento logico. Eppure oggi comprendiamo che non sta a noi porre ostacoli al suo agire, né tantomeno valgono le pretese di spiegazioni. Semplicemente bisogna sapersi fidare di lui, accogliere le sue sollecitazioni e le sue provocazioni. Dopotutto, non fu questa l’esperienza della Vergine Maria quando si trovò di fronte l’arcangelo Gabriele che le annunciava che sarebbe divenuta Madre del Signore senza nemmeno aver “conosciuto” uomo alcuno (Cfr. Lc 1,34; vedi link in basso)?

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Il Padre esce allo scoperto
A un certo punto della storia, un colpo di scena. Potremmo dire che commosso dalla tanta solidarietà verso gli uomini e dal reciproco mettersi al servizio di Gesù e del Battista, il Padre non riesce a stare oltremodo confinato nella lontananza del suo cielo, tanto che lo squarcia e fa udire la sua voce:

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Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.

Lo diceva anche un antico padre della Chiesa, sant’Ireneo:

“La gloria di Dio è l’uomo vivente” (S. Ireneo da Lione, Contro le eresie).

Così oggi siamo chiamati a rendere orgoglio il Padre nostro che è nei cieli, imitando l’atteggiamento di Giovanni il Battista e di Gesù, perché la nostra vita sia davvero degna di essere vissuta e si realizzi davvero come una sorta di palestra di santità che ci prepari a meritare un giorno il Regno dei cieli, da veri figli di Dio.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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