III domenica di Avvento – anno A
Is 35,1-6a.8a.10; Sal 145; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
INTRODUZIONE
Cari fratelli e sorelle, siamo arrivati alla terza domenica di Avvento, e ormai il Natale si fa davvero prossimo e con lui probabilmente anche lo stress dei preparativi e l’ansia per i regali ai quali si aggiungono lo sconcerto per un guerra ancora in corso, e la paura per l’inflazione economica dovuta al rincaro delle materie prime – conseguenza anch’essa del conflitto europeo in Ucraina –.
La scorsa domenica, in qualche modo, ha sortito l’effetto di una sorta di spartiacque in questo nostro tempo liturgico, in quanto segnava la metà del tempo di Avvento, e abbiamo trovato davvero interessante come la Chiesa abbia voluto provocarci invitandoci a soffermare la nostra attenzione non al tepore domestico-famigliare a cui ci rimanda un Natale consumistico, ma ad un uomo vestito in maniera malconcia che si cibava di insetti e viveva in un luogo di morte: il deserto israelitico. Parliamo, infatti di Giovanni il Battista.

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Indicandoci la sua figura, la Chiesa ci ha invitato a spostare lo sguardo non su ciò che è bello e piacevole, sull’illusione delle nostre aspettative, ma su ciò che è necessario: l’unico che davvero può indicarci la presenza dell’Agnello di Dio, il suo passaggio lungo le strade della nostra vita.
La liturgia della Parola di questa domenica, tuttavia, dismette i toni austeri e ascetici di colui che fu il precursore del Messia, e assume tinte decisamente più gradevoli: quelli della gioia. In effetti la terza domenica di Avvento è chiamata Gaudete, rimandando a un imperativo della vita cristiana: la gioia! Così solo in questa occasione, come nella terza domenica di Quaresima, la Chiesa sostituisce il colore violaceo dei suoi tessuti liturgici – che indicano attesa e penitenza – e assume quelli rosacei: quelli della gioia appunto.
A questa domenica siamo stati in qualche modo preparati, dall’ultima solennità celebrata: quella dell’Immacolata Concezione di Maria.
In effetti, tra i tanti passi biblici selezionabili, la Chiesa, nella sua grande sapienza di Madre, ha voluto farci riflettere su due testi paralleli: la scelta peccaminosa di Eva e l’accoglienza della vocazione di Maria che è, prima di tutto, un sì alla gioia di Dio e che è Dio (per un maggiore approfondimento, rimandiamo agli articoli raggiungibili ai link in basso).
Prima lettura
Dal libro del profeta Isaia (Is 35,1-6a.8a-10)
Si rallegrino il deserto e la terra arida,
esulti e fiorisca la steppa.
Come fiore di narciso fiorisca;
sì, canti con gioia e con giubilo.
Le è data la gloria del Libano,
lo splendore del Carmelo e di Saron.
Essi vedranno la gloria del Signore,
la magnificenza del nostro Dio.
Irrobustite le mani fiacche,
rendete salde le ginocchia vacillanti.
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto.
Ci sarà un sentiero e una strada
e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.

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Il profeta è spettatore della disfatta del suo paese, Israele, nei confronti delle nazioni nemiche confinanti. Una sconfitta certamente annunciata e alla quale lui aveva provato a fare in modo che venisse evitata, cercando di far ragionare il re con i suoi ministri a una politica di pace e non di astio con potenze straniere chiaramente superiori. Il re, come il popolo che lo appoggiava, però, faceva leva sull’obbligatorietà dell’intervento divino in suo favore, senza considerare minimamente che Dio era già all’opera proprio attraverso il suo profeta.

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Da questo momento in poi Israele non sarà più lo stesso, a livello geopolitico, sociale, culturale e religioso. Eppure quello che riteniamo interessante è proprio l’atteggiamento di Dio: avrebbe potuto dire al suo popolo dal cuore indurito: «Te l’avevo detto» e «ti sta bene la fine che ti è capitata, così impari». Invece l’approccio è completamente diverso. Nelle parole che comunicate attraverso la voce del profeta Isaia, il Signore si rivela benevolo, paziente con Israele. La sorte che gli è capitata, certamente, non è una punizione divina, ma la conseguenza delle sue scelte folli e Dio dall’altro canto rivela che al momento opportuno interverrà per ristabilire la giustizia nel paese. Per questo invita a gioire, già da adesso… già dal momento della prova.
Lo abbiamo affermato in diverse modalità lungo i nostri approfondimenti biblici, ma vale la pena ripeterlo: la gioia alla quale Dio ci chiama, non è qualcosa che proviene da una propensione allegra del carattere, né frutto semplicemente di una bella notizia. Queste “gioie” restano sempre passeggere, durano poco e poi svaniscono. Quella alla quale Dio ci chiama è innanzitutto frutto di una virtù teologale: la speranza, il cui nome proviene dal latino “spes” e significa attesa.
Il cristiano gioisce e permane nella gioia, anche quando tutto intorno a lui non è che oscurità e tempesta, perché è consapevole che Dio è fedele alle sue promesse, si interessa di noi, della nostra vita, del nostro benessere fisico, psichico e spirituale. Accada quel che accada, lui è con noi, non ci abbandona neanche quando ce lo meriteremmo. Basta semplicemente stare ai suoi tempi, attendere quella «pienezza del tempo» di cui parla anche San Paolo (Cfr. Gal 4,4), che rivela che l’intervento di Dio si manifesta nel momento in cui la grazia di cui abbiamo bisogno sortisce il massimo effetto possibile per noi.
Come attendere? Come coltivare la speranza?
Davvero il Signore non lascia nulla al caso e tutta la sua rivelazione previene le nostre lacune, le nostre domande. In effetti proprio attraverso il profeta Isaia ci rivela come attendere il suo intervento per coltivare il noi la virtù della speranza e godere del suo frutto che è la gioia. Leggiamo:
Irrobustite le mani fiacche,
rendete salde le ginocchia vacillanti.
Il primo invito è quello di riprendere vigore, farci forza. Spesso cadiamo nella fiacchezza di cui parla in profeta quando ci scoraggiamo di fronte alle difficoltà, o semplicemente quando ci abituiamo a una certa vita cristiana mediocre, tiepida.
Questo incoraggiamento del Signore al popolo di Israele nell’Antico Testamento, facciamo ben attenzione, diventerà un vero e proprio rimprovero, decisamente grave, per coloro che nonostante le tante sollecitazioni profetiche e divine, non avranno fatto nulla per risollevare la loro situazione. Leggiamo infatti nel libro dell’Apocalisse:
All’angelo della Chiesa che è a Sardi scrivi:
“Così parla Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle. Conosco le tue opere; ti si crede vivo, e sei morto. Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio.
All’angelo della Chiesa che è a Laodicèa scrivi:
“Così parla l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio. Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. (Ap 3,1-2.14-16)
Unitamente all’invito di ritrovare il vigore e l’entusiasmo spirituale necessario per il nostro cammino cristiano, si unisce anche quello missionario. Continuiamo, infatti, a leggere del brano del profeta Isaia:
Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Tante sono le esortazioni di Gesù alla riconciliazione e alla carità fraterna, tanto che in qualche modo tutto il suo insegnamento può sintetizzarsi nell’invito all’amore nei confronti di Dio e del prossimo.
Questa è anche l’intuizione del profeta Isaia: non possiamo mai davvero credere di poterci salvare da soli. Abbiamo sempre bisogno degli altri. Basti pensare a come siamo giunti alla fede: non da soli, ma perché qualcun altro ci ha parlato di Cristo e ci ha portato a lui.
Allo stesso modo, la virtù della speranza non può essere ottenuta senza un cammino missionario che ci porti al fratello e ci preoccupi per la sua salvezza personale. Allo stesso modo, non potrà mai esserci un cristiano veramente felice, gioioso e appagato spiritualmente che non abbia compreso questo processo di riscoperta della dignità dell’altro.
Da qui la provocazione per noi: siamo davvero cristiani missionari? In quali circostanze condividiamo il nostro cammino di fede con gli altri? Solo quando fa comodo o non temiamo di essere giudicati? Si può veramente essere cristiani di comodo?
Qual è il frutto di questo impegno personale?
A rispondere a questo interrogativo, è sempre il profeta Isaia. Continuiamo la lettura del brano di questa domenica:
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto.
Il tono della narrazione cambia d’improvviso e il profeta rivela che anche noi possiamo essere spettatori e testimoni di miracoli inauditi, troppo grandi e belli per essere veri.
Ma la condizione perché questi miracoli si avverino, lo abbiamo visto prima, è il tornare a Dio e ai fratelli con entusiasmo che è poi l’esercitarsi a vivere nella speranza della fede.
Ecco, dunque, la gioia: i ciechi tornano a vedere, i sordi a udire e gli uomini con difficoltà motoria a saltellare allegramente. Dopotutto non è proprio quello che più desideriamo ardentemente quando una malattia ci costringe a letto, quando la vista e l’udito si offuscano?
Per mezzo del profeta Isaia, il Signore oggi ci dice che tutto questo è possibile, che possiamo anche noi sperimentare questa gioia grande che coglie le nostre impellenze fisiche, ma andando oltre, salvando anche la nostra anima e indirizzandoci come popolo, come comunità, incontro a Dio, lì dove non ci saranno più né tristezza e né pianto. Infatti, lo stesso profeta invita a trascendere la materialità di questa vita, ricordandoci che siamo stati creati per un’altra vita, ben più superiore. Leggiamo:
Ci sarà un sentiero e una strada
e la chiameranno via santa.
Su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore
e verranno in Sion con giubilo;
felicità perenne splenderà sul loro capo;
gioia e felicità li seguiranno
e fuggiranno tristezza e pianto.
Questo dunque è il fine della speranza, di tutte le nostre attese, la ricompensa nel non esserci scoraggiati di fronte alla gioia. Questa, ancora, è la meta della nostra carità fraterna: l’andare incontro a Dio, non come singoli, ma come comunità, nella gioia.
Riteniamo interessanti l’annotazione di come si torna a Dio: da riscattati. Ecco, questo è un termine tutt’altro che casuale. Chi è il riscattato? Colui che era stato venduto come schiavo: egli viene comprato da un altro padrone che in realtà lo fa col solo intento di ridonargli la libertà. E qual era il prezzo imposto sul nostro capo? Quello della morte eterna a motivo di un peccato originale che ci siamo portati dietro come eredità dei nostri progenitori. Un prezzo pagato caramente dal Figlio di Dio e dal Padre che consegna a degli aguzzini senza scrupoli il suo tesoro più prezioso. Se solo ce ne rendessimo conto ogni volta che partecipiamo alla Santa Messa, riattualizzazione dell’offerta di Cristo sull’altare della sua croce, forse vivremmo in maniera più coscienziosa il nostro battesimo.
A Dio, tornando dunque a Isaia, si torna da riscattati, cioè da uomini liberi. Se siamo schiavi del peccato, dell’orgoglio, del pregiudizio, della nostra stessa immagine da dare alla società, difficilmente arriveremo a lui, preferendo la nostra misera schiavitù alla libertà dei figli di Dio.
Seconda lettura
Dalla lettera di san Giacomo apostolo (Gc 5,7-10)
Siate costanti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Guardate l’agricoltore: egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge. Siate costanti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina.
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Fratelli, prendete a modello di sopportazione e di costanza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore.

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Questa è una di quelle poche domeniche in cui la seconda lettura della liturgia della Parola combacia tematicamente, alla prima.
Le parole dell’Apostolo Giacomo, infatti, sembrano riprendere le affermazioni di Isaia, dandone una sfumatura diversa, più adeguata alla situazione della comunità cristiana da lui fondata e alla quale dirige questo suo scritto.
Infatti, unitamente all’invito di non lasciarsi andare alla tiepidezza spirituale e a rendere salda la propria speranza nell’attesa prossima del ritorno di Cristo nella gloria, invita anche a usare saggiamente, cristianamente potremmo dire, le nostre parole nei confronti dei nostri fratelli di comunità. Rileggiamo:
Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati
Leggendo questa sua affermazione, non possiamo che pensare quanto sia attuale se confrontata alla situazione delle tante comunità parrocchiali delle nostre chiese, dove pettegolezzo e mormorazioni sono all’ordine del giorno e non hanno che un solo fine: uccidere. Lo dice lo stesso papa Francesco in un’omelia di non troppi mesi fa, quando paragonando Caino a quello di molti uomini di chiesa, li chiama «cristiani omicidi».
Il pettegolezzo e la mormorazione però, sono sempre un’arma a doppio taglio e lo rivela lo stesso apostolo Giacomo invitando a un uso più sapienziale e caritatevole della parola per non incorrere nel giudizio divino, il quale è decisamente più pesante da sopportare.
Ecco allora che la seconda lettura di questa domenica ci offre un’ulteriore pista per come acquisire, vivere e tenere allenata la nostra speranza nella carità della nostra fede.
Vangelo
Dal Vangelo secondo Matteo (Mt 11,2-11)
In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».
Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.
In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».
Aspettative deluse
«Ci si aspettava tanto, e invece…»: potremmo sintetizzare con queste parole, i pensieri dei discepoli del Battista e quelli di Gesù. Del Battista si pensava fosse il nuovo profeta Elia, ma invece di salire in cielo su un carro di fuoco come quel profeta, finisce miseramente la sua esistenza: in carcere e senza una vera e propria motivazione. E lo stesso vale per Cristo: ci si aspettava che fosse il Messia liberatore di Israele, e invece muore nella maniera più infamante, appeso a una croce.
Giovanni che aveva indicato nel suo parente, il suo successore: l’inviato di Dio. Leggiamo così, infatti, nel terzo capitolo del Vangelo secondo Matteo:
Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile” (Mt 3,11-12).
Stando in carcere al Battista gli vengono portate notizie di Gesù, ma alla fine si rende conto che non agisce come ci si aspetterebbe dal Messia, per questo gli chiede conferme.
Effettivamente sia lui che Cristo deludono le aspettative dell’epoca, eppure era ciò che il mondo, e l’umanità di tutti i secoli, aveva bisogno.
Da qui la prima provocazione per tutti noi. Spesso ci sentiamo spenti, delusi da noi stessi e dalla nostra stessa vita. Lasciamo che la nostra autostima ci scivoli sotto le suole delle nostre scarpe, perché non arriviamo a degli obbiettivi che gli altri si aspettavano da noi, o che altri comunque hanno raggiunto. Oggi, però, siamo chiamati a sfatare questo mito del super uomo e a riconoscere che se il Signore ci ha dato la vita, proprio a noi e non a qualcun alto, forse un motivo dovrà anche esserci. Forse non rispettiamo i canoni che la società, la comunità e persino la famiglia si aspetterebbe da noi, ma veramente siamo ciò di cui il mondo, e Dio stesso, ha bisogno. E questo, ovviamente, vale anche il nostro prossimo, per cui dovremo aprirci un po’ più spesso, e un po’ più generosamente, all’accoglienza dell’altro.
Stupiamo il mondo, stupiamoci di noi stessi e lasciamoci stupire da Dio e dai fratelli, oggi è il motto che siamo chiamati a cogliere per rinnovare la nostra speranza, per non farci derubare da essa (che è poi uno dei costanti appelli di Papa Francesco).
La risposta di Gesù
Di fronte alle titubanze del suo precursore, il Nazareno risponde non con un’espressione teoretica, astratta, filosofica o teologica, ma con i fatti:
Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo.
Non siamo noi che dobbiamo presentarci al mondo. non saranno le nostre conquiste, né i nostri successi a rivelare lo spessore della nostra persona. Per Gesù è chiaro: è la vita a parlare per noi, lo sono le nostre scelte quotidiane, i nostri gesti. A dare testimonianza di lui, sono le persone che ha incontrato e che da questo incontro ne sono uscite rinnovate.
Ecco allora la seconda provocazione per noi oggi: cosa dice la nostra vita di noi? Cosa rivelano le nostre relazioni? Le intessiamo, ce ne prendiamo cura? O siamo cristiani che innalzano soltanto muri e bisbigliano negli angoli bui delle strade dei nostri quartieri o tra i banchi delle nostre chiese?
Felice chi si lascia stupire
Il tema dello stupore torna più volta, in maniera quasi prepotente nelle letture di oggi. Ma, se ci facciamo caso, le persone più felici sono proprio i bambini, perché hanno la capacità di lasciarsi continuamente stupire.
In qualche modo questo torna nell’ultima affermazione di Gesù, quella che chiude la sua risposta rivolta ai discepoli del Battista:
E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!
Il termine beato, ormai lo sappiamo dai tanti articoli che abbiamo dedicato a questo tema, significa “felice”. E lo scandalo richiama, in qualche modo, lo stupore, perché trova in lui un motivo di esultanza per la novità di Dio e non impedimento alla propria fede (scandalo appunto). Questo ci rivela che solo nella misura in cui sapremo abbassare le barriere delle nostre autodifese imposte da scelte sbagliate e relazioni tossiche, potremo sperimentare la beatitudine di cui parla Gesù, quella gioia cristiana alla quale in maniera più o meno consapevole aneliamo ogni giorno della nostra vita.
Carissimi la nuova politica di facebook impone la riduzione della possibilità di condivisione di un post, per costringere molti utenti a spendere denaro per pubblicizzare i loro contenuti.
Vi preghiamo di sostenere il nostro progetto di diffusione della Parola di Dio, condividendo i nostri post nelle vostre bacheche facebook, nei gruppi, su whatsapp e gli altri social networks.
La gioia di Dio e che è Dio possa raggiungere quanti più fratelli

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Fame della Parola di Dio?
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