Catene di Sant’Antonio al tempo dei social networks. Quale il pericolo?

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Una nostra lettrice qualche giorno fa, evidentemente esausta, ci ha chiesto di approfondire la questione delle cosiddette “catene di Sant’Antonio”.
Si tratta di una forma di religiosità, diciamolo subito, deviata, non consona col magistero della Chiesa e che tende a rendere il fenomeno religioso della preghiera un vero e proprio atto magico. Esso, infatti, avrebbe la pretesa di piegare la volontà del Padre a patto che si riescano a realizzare determinate condizioni, come per esempio l’invio di un numero definito di preghiere, immagini sacre, santini e quant’altro. Il tutto teso sempre a rendere l’uomo non libero nella sua relazione con Dio e con i fratelli (cfr. Rm 8,21), ma schiavo di formule e rituali.

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Il Catechismo della Chiesa Cattolica inserisce questo modo distorto di relazionarsi a Dio e alla preghiera, tra i peccati di superstizione, quelli che ledono già il primo dei comandamenti: «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3). la posizione della Chiesa al riguardo è netta, e il Catechismo introduce l’argomento con queste parole:

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«Il primo comandamento vieta di onorare altri dèi, all’infuori dell’unico Signore che si è rivelato al suo popolo. Proibisce la superstizione e l’irreligione. La superstizione rappresenta, in qualche modo, un eccesso perverso della religione; l’irreligione è un vizio opposto, per difetto, alla virtù della religione» (CCC 2110).

Quindi, nell’articolo successivo, senza usare mezzi termini vieta e abborre ogni tipo di superstizione che talvolta si maschera da retta religiosità. Leggiamo:

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«La superstizione è la deviazione del sentimento religioso e delle pratiche che esso impone. Può anche presentarsi mascherata sotto il culto che rendiamo al vero Dio, per esempio, quando si attribuisce un’importanza in qualche misura magica a certe pratiche, peraltro legittime o necessarie. Attribuire alla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo dalle disposizioni interiori che richiedono, è cadere nella superstizione» (CCC 2111).

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L’EVOLUZIONE DELLE CATENE NELL’ERA DEI SOCIAL NETWORKS
Se pensiamo che ormai l’usanza delle catene è in disuso e che si tratti di un fenomeno appartenete al passato, siamo piuttosto in errore. Oggi le catene si sono evolute, hanno cambiato apparenza e sono diventate persino graficamente accattivante. Quanti di noi non si sono trovati di fronte a post come questi su facebook o instagram?

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Fare qualcosa col solo intento di estorcere un beneficio da Dio, fosse una preghiera, un gesto, o un “amen” come in questo caso è superstizione. Certo, un discorso secondario, ma non meno importante, è il fine di determinate pagine social che monetizzano in base alle interazioni che generano i loro post. Di certo non manca creatività a questi signori che creano sempre nuovi contenuti per manipolare i sentimenti degli utenti, creando una certa empatia con l’immagine dei loro post (vedi foto qui sotto, ma di esempi ce ne sono davvero tanti).

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Ma fatto sta che sia davanti a catene di sant’Antonio travestite. E dove prima bisognava sciorinare la formula di una preghiera e inviare mille immaginette del Gesù misericordioso, o del suo santo volto, ora basta un rapidissimo “amen” e non ci si deve più prendere la briga di spedire immaginette in giro per il mondo, e nemmeno lasciarle furtivamente agli ingressi delle Chiese. Tutto è a portata di click. Rapido, velocissimo e indolore, proprio come la religiosità che molti cristiani vorrebbero, senza predisposizioni d’animo e senza conseguenze morali per la propria vita.

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PER UN USO VERAMENTE CRISTIANO DEI SOCIAL NETWORKS
Se da un lato c’è chi si arricchisce sulla superstizione altrui, d’altro canto non possiamo pensare che la condivisione di certi post sulle nostre bacheche, o sulle altre piattaforme social di amici e parenti, non abbiano conseguenze morali per la nostra vita cristiana. Non si tratta semplicemente di commettere un peccato morale, e uno di quelli gravi tra l’altro, ma di riconsiderare la responsabilità che abbiamo di fronte all’uso dei nuovi mezzi di comunicazione. Non è assolutamente vero che la mia libertà di espressione, mi autorizzi a scrivere qualsiasi cosa sui social network. Proprio la mancata comprensione di questo sta portando negli ultimi tempi all’incattivimento di tante persone, i cosiddetti haters, che in italiano potremmo tradurre come “odiatori”. Come se odiare fosse un lavoro, qualcosa che definisce intimamente una persona o un gruppo di esse.

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Qui non si tratta di condannare i social networks, ma come cristiani dobbiamo riscoprire il valore di una tecnologia che può essere il trampolino di lancio per veicolare un messaggio di pace e di speranza, fondata nella verità di Cristo e proiettata a quella carità fraterna che è tale solo nella misura in cui è disinteressata e incentrata solo al bene dell’altro, alla sua crescita umana, morale, psicologica e spirituale.

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COSA FARE ALL’ORA?
Con il precedente paragrafo abbiamo detto che esiste un modo più responsabile e rispettoso di usare la rete sociale, un modo sicuramente più cristiano. Per questo, ignorare certi usi sbagliati di internet, evitare certi post, fingere che non esistano, non basta. Non è sufficiente! Essi proliferano proprio lì dove c’è carenza di formazione cristiana, dove la fede è debole o comunque immatura, incolta. Se ce ne disinteressiamo, però, noi restiamo parte di un problema molto grande per cui tanti battezzati cadono in un peccato grave e forse nemmeno lo sanno.

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Non possiamo disinteressarci di essi. La risposta che Caino diede a Dio, dopo aver ucciso il fratello, celava proprio questo modus operandi: quello che riguarda il mio fratello, non riguarda me. Infatti leggiamo nel libro della Genesi:

Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse io il custode di mio fratello?” (Gen 4,9)

Il termine che usa Caino e a cui Dio, implicitamente risponde, è “custode”. L’altro è un bene per cui prendersi cura. Non si custodiscono cose di poco valore, dopotutto.

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Per questa ragione il benessere spirituale dei nostri fratelli che cedono alle catene di S. Antonio, non può disinteressarci. Farlo implicherebbe comunque nel cadere in un peccato che non sarebbe meno grave del loro: quello del disinteresse, dell’egoismo. L’invito, dunque, è quello di sempre: essere un prolungamento della tenerezza del Padre, nel sovvenire alle necessità dei nostri fratelli, in questo caso di tipo spirituale e culturale, e aiutarlo a comprendere che quella che segue non è vera religiosità, che non è in questo modo che Dio gli concederà le grazie che necessita.

RIEDUCARSI ALLA PREGHIERA
A che serve pregare se ci comportiamo da pagani? Se la preghiera non è un’intima esigenza di relazione con il Dio Trino e Uno, a cosa serve pregare? Davvero possiamo pensare che essa si esaurisca nella semplice richiesta (e non pretesa) di una grazia (per un maggiore approfondimento su questo tema, rimandiamo ai link in basso).

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La provocazione con la quale chiudiamo questo approfondimento riguarda tutte le nostre relazioni. Una persona viene ritenuta poco gradevole, se si interfaccia con gli altri solo per interesse, perché spera di ottenere qualche vantaggio. Questo è condiviso da tutti, ne siamo tutti d’accordo, ma equivale anche nel nostro rapporto con Dio: che classe di cristiano è quello che si ricorda del suo Signore, solo quando ha bisogno di qualche grazia?

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Se la qualità delle nostre relazioni non vanno oltre l’aspetto commerciale del dare e avere, non potranno mai crescere né farci crescere. Per questo la preghiera è prima di tutto un modo di entrare in relazione con Dio, ringraziarlo, lodarlo, chiedergli perdono e anche qualche grazia all’esigenza. Se cresceremo in questo, potremo persino imparare a entrare in dialogo col Padre, metterci in ascolto di lui e della sua volontà e dirgli finalmente: “Ma tu come stai? Cosa vuoi che io faccia per te?”

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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