In quel tempo, Gesù diceva ai discepoli:
«Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più amministrare”.
L’amministratore disse tra sé: “Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua”.
Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: “Tu quanto devi al mio padrone?”. Quello rispose: “Cento barili d’olio”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta”. Poi disse a un altro: “Tu quanto devi?”. Rispose: “Cento misure di grano”. Gli disse: “Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta”.
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce (Lc 6,1-8).

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I destinatari dell’insegnamento di Cristo
Il Vangelo di questa domenica, riporta una parabola di Gesù il quale, diversamente dalle altre volte, non si dirige alle folle, né ai suoi avversari (scribi, farisei e casta sacerdotale), ma direttamente a quel gruppo di persone che lo seguono più da vicino (non si tratta dei soli apostoli, vedi per esempio all’approfondimento qui in basso). Proprio perché dunque si rivolge ai discepoli, possiamo ben stare attenti a quel che dice, perché la sua parola riguarda anche noi, il nostro cammino spirituale, il nostro discepolato.
Visione d’insieme
Gesù parla di un padrone che richiama il suo amministratore annunciandogli il licenziamento perché, a suo dire, il lavoro svolto non gli frutta il guadagno sperato. In cosa consisti poi questo guadagno, lo si capirà più avanti e sarà il colpo di scena che Gesù darà al suo insegnamento, ma l’amministratore non si perde d’animo e dopo un breve ragionamento circa il suo futuro, decide di chiamare a sé i debitori del suo padrone e ne abbassa il debito, cercando così di accattivarsi le loro simpatie e trovar impiego presso uno di essi.
Il colpo di scena sorge nel momento in cui il padrone si rende conto dell’ultima macchinazione del suo impiegato, tant’è che Gesù conclude:
Il padrone lodò quell’amministratore disonesto
A ben vedere quell’impiegato sarebbe stato degno di un’ulteriore condanna dal suo datore di lavoro e, invece, non ne ottiene che lodi. Perché? Perché evidentemente era quello che il padrone si aspettava da lui fin dall’inizio: il rimettere i debiti altrui.
Buoni amministratori di beni non nostri
Se la parabola è rivolta ai discepoli, e non ai farisei come ci si potrebbe aspettare, dobbiamo capire in che modo essa ci coinvolga, per comprendere cosa ancora Cristo si aspetti da noi.
La parabola ha un forte richiamo escatologico, rimandando al giudizio finale dell’uomo quando, con le sue azioni, comparirà al cospetto di Dio per renderne conto. In un’epoca in cui siamo costantemente tentati di vivere da egolatri e narcisisti, in cerca di consensi e seguaci per una foto sui social networks, Gesù ci ricorda che tutto ciò che siamo e tutto ciò che abbiamo, in realtà, non sono nostri, ma provengono dall’amore misericordioso, tenero e provvidente di un Dio che ci è Padre e che si aspetta che tutti questi beni sappiamo ben amministrarli nella condivisione, nel rimetterli ai nostri debitori.
Da qui la domanda: cosa ne stiamo facendo della nostra fede? Delle nostre capacità culturali, intellettive, relazionali? Riconosco che se esse non li uso per andare incontro al mio prossimo, a colui che mi è debitore perché mi ha fatto un torto, ne dovrò rendere conto a Dio?
Ricordiamoci che l’amministratore viene lodato dal suo padrone, quando si decide di usare quei beni non suoi per usare misericordia verso i debitori del padrone. Allo stesso modo saremo accusati di sperperare i talenti del Signore, il tempo che ci ha dato da vivere su questa terra, se avremo voluti tenerli solo per noi, se seguiamo la logica di un accaparramento che non è quella di Dio, se seguiamo la tendenza dell’autopreservazione dalle ferite che gli altri potranno provocarci.
È quello che misteriosamente comprende la vedova di Sarepta al tempo del profeta Elia. Ella che povera e deve pensare anche al sostentamento del figlioletto, quando decide di condividere i suoi pochi beni per il bene del profeta inviato da Dio, sperimenterà ce il suo poco non si esaurirà mai. Leggiamo infatti nel primo libro dei Re:
[Elia] si alzò e andò a Sarepta. Arrivato alla porta della città, ecco una vedova che raccoglieva legna. La chiamò e le disse: “Prendimi un po’ d’acqua in un vaso, perché io possa bere”. Mentre quella andava a prenderla, le gridò: “Per favore, prendimi anche un pezzo di pane”. Quella rispose: “Per la vita del Signore, tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po’ d’olio nell’orcio; ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. Elia le disse: “Non temere; va’ a fare come hai detto. Prima però prepara una piccola focaccia per me e portamela; quindi ne preparerai per te e per tuo figlio, poiché così dice il Signore, Dio d’Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra””. Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia (1Re 17,10-16).
All’esempio della vedova di Sarepta, si aggiunge la lode di Gesù per la coraggiosa generosità di una donna povera nel tempio di Gerusalemme, che ci invita all’imitazione:
In quel tempo, Gesù nel tempio diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere» (Mc 12,38-44).
Come entrare nel Regno dei cieli
Se già la prima provocazione di Gesù ci sembrava troppo ardua da cogliere, da interiorizzare, la seconda non è da meno:
Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
È un’affermazione forte, perché ci rivela che per entrare «nelle dimore eterne» della salvezza, bisogna farlo usando quella ricchezza disonesta di chi dona per amore beni non suoi, ma del “Padrone” appunto.
La Chiesa Cattolica ha profondamente recepito questo messaggio di Cristo e nel Catechismo afferma:
«La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri, e, in primo luogo, con i propri congiunti» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2404).
In sintesi Gesù ci fa comprendere che se tutto quello che abbiamo, che siamo, che abbiamo conquistato con sacrificio nella vita, non è sottomesso, veicolato e orientato all’amore, alla misericordia, alla donazione, allora ne stiamo facendo un uso diverso da quello che Dio si aspetta da noi e un giorno dovremo rendergli conto.

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Fame della Parola di Dio?
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