A tutto c’è rimedio tranne che alla morte, ogni tanto si sente ancora dire. È una affermazione pagana, perché il rimedio alla morte esiste, e ce l’abbiamo da almeno due millenni: Cristo con la sua morte ha distrutto la morte, da fine ineluttabile l’ha trasformata in un passaggio verso la vita vera, quella bella.
Prima lettura
Dal libro dei Giobbe (Gb 19,1.23-27a)
Rispondendo Giobbe prese a dire:
«Oh, se le mie parole si scrivessero,
se si fissassero in un libro,
fossero impresse con stilo di ferro e con piombo,
per sempre s’incidessero sulla roccia!
Io so che il mio redentore è vivo
e che, ultimo, si ergerà sulla polvere!
Dopo che questa mia pelle sarà strappata via,
senza la mia carne, vedrò Dio.
Io lo vedrò, io stesso,
i miei occhi lo contempleranno e non un altro».
Professa la sua fede in un Dio che è vivo e da vivo è sicuro che lo vedrà È interessante questo, perché Giobbe non ha mai conosciuto Cristo, ma ha ben capito di che pasta fosse fatto il suo e nostro Signore: un Dio che è tenerezza infinita .
Quando Giobbe fa questa professione di fede era su un giaciglio, piegato nell’animo e nel corpo, affrontava una prova tremenda, ma lui non si ribella, non addossa la colpa al suo Signore, al contrario testimonia che Dio è amore e da lui non può che venire il bene. Ha tanto da insegnarci sul come noi viviamo il momento della prova. Solo se l’animo è davvero allenato all’incontro con Dio può affrontare coraggiosamente i momenti di prova senza disperazione e senza ribellione Giobbe è desideroso di vedere Dio, per Giobbe la morte non è la fine, per lui è un incontro con una persona molto amata e tanto attesa. Per lui la morte è una buona notizia e invita.

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Seconda lettura
Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Romani (Rm 5,5-11)
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Il brano si apre con una esortazione chiara ai cristiani che abitavano a Roma:
Fratelli, la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato
Cos’è la speranza? Non è nulla di astratto, non è la vana aspettativa d una grazia di Dio che gli chiediamo nella preghiera e chissà si avvererà. La speranza è un’esperienza.
Essa, infatti, è possibilità chiara, fattuale, concreta, esperienziale, infatti, dell’amore divino che riguarda tutta la Trinità. Amore del Padre nello Spirito grazie al Figlio.

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Solo chi fa esperienza dell’amore di Dio nella propria vita può dire di vivere la virtù teologale della speranza. Ma per questo è necessario fare un lavoro su se stessi, riconciliarsi con la propria storia personale, riandare con la memoria ai momenti belli e bui della propria esistenza e riconoscere come non si è mai stati lasciati a se stessi. Dio era là, ti teneva vicino, ti ha fatto superare grossi scogli, ti ha manifestato la sua provvidenza e la sua tenerezza attraverso le persone che ti ha messo accanto.
Da questa consapevolezza nasce la speranza che innesca una reazione a catena. La speranza dà vita alla fede e questa all’entusiasmo, al coraggio e alla gioia che sono poi le virtù dei santi come abbiamo visto ieri.
Da qui, dunque, alcune provocazioni per la nostra vita spirituale oggi. Domandiamoci: quando abbiamo fatto esperienza dell’amore di Dio nella nostra storia personale?
Dalla possibilità di rispondere a questa domanda, facendo un cammino a ritroso nella nostra vita, per cercare i segni della sua Provvidenza, del suo grande aiuto, potremmo giungere alla consapevolezza di quanto sia immeritata la sua tenerezza per noi. Da qui, infatti, l’affermazione di San Paolo nella lettura di oggi:
mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi
La prospettiva dell’amor divino non può non metterci in crisi, perché la sua gratuità non può non consentire una conversione nelle nostre relazioni personali. Qui si situa l’eroicità del cristiano che comprende che sia ben facile amare chi ricambia i nostri sentimenti, ma ben più difficile è amare il nemico. Infatti aveva appena affermato l’apostolo:
Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona.
Tuttavia la comprensione della tenerezza divina, che impone un movimento interiore dell’uomo verso il suo fratello, permise a Paolo di essere quello che noi abbiamo definito come l’Apostolo della gioia (vedi link in basso)
Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,37-40)
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno.
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno».
Cominciamo il nostro commento con una affermazione di Gesù. La riteniamo importante e potrebbe passare inosservato:
Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me:
Perché è importante questa affermazione di Gesù? Perché ci rivela qualcosa della relazione intima che intercorre tra le prime due Persone della Santissima Trinità: il Padre e il Figlio. In questo caso Gesù ci sta rivelando che i credenti sono un regalo, un dono, che il Padre gli ha fatto per manifestare il suo amore per lui.
È una affermazione forte, perché ci rivela quanto siamo importanti per il Padre che dona e per il Figlio che riceve e intende custodire con sensi di gratitudine. Fermiamoci a pensare quante volte ci siamo sentiti appesantiti da noi stessi: dal nostro peccato, dalla nostra storia personale, da quello che gli altri dicono di noi, demolendo la nostra autostima. Eppure, nonostante tutto, quanto ci ama Dio, quanto siamo importanti per lui! Valiamo davvero tanto per Dio, quindi dovremo cominciare davvero a crederci, a fare anche questo atto di fede con noi stessi.
L’ultima provocazione che cogliamo, ci viene dalla conclusione del discorso di Gesù presente nel Vangelo di oggi. Rileggiamo:
Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno
Ancora una volta vediamo che quando si tratta di avere a che fare con l’umanità, a intervenire sono entrambe le persone della Trinità (lo Spirito Santo non se ne sta in disparte a guardare, ma il suo ruolo è altro, rinviamo ai link in basso). La redenzione dell’uomo comporta un lavoro assiduo, continuo e congiunto del Padre e del Figlio.
Quello che però vogliamo sottolineare è che Gesù combina tra loro il credere e il vedere. Questo ci rivela ancora una volta che la fede non è mai qualcosa di astratto, un’adesione irrazionale a dei dogmi imposti dalla Chiesa, ma, ancora una volta, un’esperienza tangibile con i sensi, in questo caso la vista (in tal altri passaggi biblici il credente è persino invitato a gustare Dio, vedi link in basso).
Vedere per credere è in qualche modo il lemma della fede che fu anche di Tommaso, e che gli implicò una sorta di risurrezione spirituale (vedi approfondimento al link in basso).
In questo caso, secondo quanto ha affermato Gesù, il vederlo permette il credere in lui. Per questa ragione potremmo dire che la salvezza dell’uomo è una questione di sguardi.
Ma la domanda è: chi può avere il grande privilegio di vedere faccia a faccia il Figlio di Dio? Solo i grandi mistici? No, in realtà riguarda tutti noi e l’esempio più lampante lo troviamo nell’esperienza dei discepoli di Emmaus (Cfr. Lc 24,13-35; vedi approfondimento al link in basso).
Essi non riconoscono che chi cammina con loro sia Cristo, tuttavia quando lo riconosceranno nello spezzare il pane, comprenderanno che da adesso l’unica cosa che devono fare per tornare a vedere il Maestro devono compiere un cammino in senso inverso e riconoscerlo negli occhi di quella comunità di credenti che si erano lasciati alle spalle.
Allo stesso modo anche noi siamo chiamati ad alimentare uno sguardo contemplativo, capace cioè di andare oltre la superficialità della realtà, della storia, della società e delle nostre relazioni, per scoprire in essi la presenza stessa del Signore. Su questo argomento abbiamo avuto modo di riflettere e approfondire nei nostri precedenti articoli, a cui rimandiamo ai link in basso.
Ma non solo. Gesù quando parla di vedere lui e di godere della sua salvezza, non usa verbi al futuro, ma usa il presente. Per questa ragione non possiamo non dimenticare la vita eterna inizia da oggi, da come viviamo il nostro presente progettandoci per l’eternità con lui. I nostri cari defunti che oggi commemoriamo liturgicamente, non possono semplicemente sortire un senso di vuoto e di tristezza, a motivo della loro mancanza, ma devono essere per noi un continuo sprone a vivere di eternità già qui ed oggi, perché quando arriverà la nostra ora noi potremmo vivere per sempre nella loro compagnia, insieme alla Trinità.

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