XXVIII domenica del tempo ordinario – anno C
2Re 5, 14-17; Sal 97; 2Tm 2, 8-13; Lc 17, 11-19
INTRODUZIONE
A. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5)
Ci sono situazioni della nostra vita che sembrano senza uscite, vicoli bui dai quali finiamo per sentirci inghiottiti, intrappolati non avendo altra prospettiva se non quella del fallimento, dell’impotenza, della morte.
La liturgia della Parola di questa domenica ci invita a sfatare questa concezione rassegnata e sfiduciata della vita e ci ricorda che Dio apre strade nuove lì dove non vedevamo che muri invalicabili. Lui stesso, attraverso il profeta Isaia, ci aveva invitato a non rassegnarci al brutti tiri della nostra esistenza e a non scoraggiarci mai:

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Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa (Is 43,19).
Cos’ha a che vedere tutto questo con le letture di questa domenica? Il nodo di connessione tra la provocazione divina al non scoraggiarci e le letture di oggi si trova nel contesto della lebbra che segna profondamente i personaggi della prima lettura e del Vangelo, benché bisogna segnalare che nell’antico Israele, a motivo delle scarse conoscenze in cambio medico-scientifico, veniva identificata come lebbra ogni tipo di malattia della pelle.
B. La malattia è un castigo di Dio?
La lebbra, infatti, resta una delle malattie infettive più pericolose che, nelle regioni più povere del mondo, continua a seminare sofferenza e morte. Proprio per questo la prima cautela che è necessario prendere per non esserne contagiati è quella di mantenere un certo distanziamento sociale dall’infetto. Per questa ragione, già nell’antico Israele, si costringevano i malati di peste a vivere in luoghi appartati, alle periferie della città (se non propriamente fuori dalle mura). Tuttavia, non potendo sostenersi, vivevano di stenti e quando erano costretti ad entrare in città dovevano gridare il loro stato, sicché nessuno osasse avvicinarsi.
La legge mosaica, raccolta nel libro del levitico, prescrive una serie di atteggiamenti del malato affinché venga evitato il contagio. Leggiamo:
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”. Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento (Lv 13,45-46).
Allo stato di prostrazione fisica, difficilmente guaribile e che in maniera inesorabile, condannava a una morte lenta, dolorosa e umiliante, al malcapitato sofferente si aggiungeva la sventura di dover essere allontanato dalla vita sociale e religiosa dell’epoca, ritenendosi meritori di un castigo divino a motivo dei loro occulti peccati.
Con il suo ministero pubblico Gesù sfatò il mito secondo cui prostrazione, malattia o morte provenissero da Dio, in quanto questo è buono ed è solo in grado di amare. Leggiamo infatti nel nono capitolo del Vangelo secondo Giovanni:
Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: “Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?”. Rispose Gesù: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio (Gv 9,1-3).
C. L’identità di Dio
Ultima tappa di questa introduzione consequenziale ai brani biblici di questa domenica ci viene offerta dall’identità di Dio. Abbiamo visto come lui è sempre pronto a creare nuove strade, nuove vie, lì dove a noi sembra che non ci siano più sbocchi. A questa concezione, abbiamo aggiunto il fatto che male e malattia non provengano da Dio perché la crudeltà e la vendetta non gli appartengono, anzi lui sana la nostra incredulità e il nostro peccato con la sua misericordia (come formula solennemente la prima preghiera eucaristica).
In effetti tutti i personaggi delle letture di questa domenica sperimenteranno la tenerezza di Dio, attraverso una guarigione immeritata. Da qui la reazione di due di loro: il rinnovo del loro cuore, animato da una profonda gratitudine nei confronti di Dio.
Prima lettura
Dal secondo libro dei Re (2Re 5,14-17)
In quei giorni, Naamàn [, il comandante dell’esercito del re di Aram,] scese e si immerse nel Giordano sette volte, secondo la parola di Elisèo, uomo di Dio, e il suo corpo ridivenne come il corpo di un ragazzo; egli era purificato [dalla sua lebbra].
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo». Quello disse: «Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto, non lo prenderò». L’altro insisteva perché accettasse, ma egli rifiutò.
Allora Naamàn disse: «Se è no, sia permesso almeno al tuo servo di caricare qui tanta terra quanta ne porta una coppia di muli, perché il tuo servo non intende compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dèi, ma solo al Signore».

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Naaman è un uomo importante, ricopre un ruolo di prestigio nella sua società. Egli è un pagano, ma prostrato dalla sofferenza e dalla vergogna di dover affrontare la più infamante delle malattie. Disperato prova a giocarsi l’ultima, e unica, carta in suo possesso: ascoltare le parole del profeta Eliseo, l’uomo di Dio indicatogli da una delle sue serve.
Il brano ci mostra l’ultimo passaggio del suo cammino interiore, fino a fidarsi di un perfetto sconosciuto che lo invita a fare qualcosa che per lui è privo di senso. Ed è qui che si situa la narrazione della prima lettura, con il generale che viene misteriosamente guarito dalla malattia.
Il risanamento dalla lebbra ha comportato per lui un risanamento anche interiore: l’adesione grata a un Dio che prima ignorava, il desiderio di camminare nella via dell’ umile gratitudine e non più dell’arroganza e della superbia. Rileggiamo:
Tornò con tutto il seguito da [Elisèo,] l’uomo di Dio; entrò e stette davanti a lui dicendo: «Ecco, ora so che non c’è Dio su tutta la terra se non in Israele. Adesso accetta un dono dal tuo servo».
Non dimentichiamo di essere servi inutili
Il problema sorge nel momento in cui Eliseo rifiuta qualsiasi dono da parte di Naaman. Per quanto questi sia spinto da nobili intenti, deve apprendere la sua ultima lezione: l’amore o è puro e gratuito, oppure non è amore. Dal profeta il generale comprende che deve canalizzare diversamente la sua gratitudine e che in fin dei conti Eliseo non era che un servo inutile di Dio, uno che ha fatto quanto era in suo dovere (Cfr. Lc 17,10).
Il cammino umano di Naaman
Cosa vuole comunicarci Dio attraverso questo brano tratto dal secondo libro dei Re? Possiamo riassumerlo con le parole dell’Apostolo Paolo:
Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio (Rm 8,28).
Alla fine attraverso la lebbra –malattia orribile e mortale –, Naaman ha potuto fare esperienza di un rinnovamento esistenziale che è iniziato dalla guarigione fisica, finendo per rinnovarne lo spirito nella fede, nella lode e nella gratitudine. Il dolore, la sofferenza, alla fine non sono mai cose volute da Dio, al contrario, lui ha creato l’uomo per l’eternità, per la vita e per la gioia imperitura, eppure con esse prima o poi tutti dobbiamo confrontarci. L’importante è affrontare le prove della vita con la consapevolezza della tenerezza divina, che in maniera misteriosa opera nella nostra vita e intorno a noi. Quanto triste è invece quando i cristiani anziché lodare Dio per la guarigione fisica, finiscono per dare tutto per scontato come frutto del caso.
Proprio oggi, invece, è un uomo pagano che ci insegna a vivere bene la nostra fede, con l’atteggiamento giusto del credente che vive costantemente alla luce della grazia divina, in stretto contatto con la sua presenza amorevole e misericordiosa.
Vangelo
Dal vangelo secondo Luca (Lc 17,11-19)
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
Quell’incosciente generosità del Nazareno
Nella sua grande, e forse incosciente, generosità Gesù accoglie tutto quel gruppo di lebbrosi, che potevano far paura a molti visto che camminano insieme diretti verso un solo uomo. Li ascolta tutti con pazienza guardando ognuno di loro negli occhi, senza cacciarli né correre via, come le consuetudini dell’epoca invitavano.
Se c’è una cosa che Gesù ha ben chiaro, è che l’amore non ha legge, non è prudente, ma tutto si dona fino a diventare egli stesso dono per l’umanità intera, ferita e piegata dal cancro del peccato e della morte.
Oggi come allora una persona malata, provoca sempre una certa repulsione. Stare ad ascoltare chi non fa che lamentarsi non è facile, soprattutto in un’epoca in cui morte, sofferenza e malattia sono diventati un tabù. Qualcosa da esorcizzare con “energie” più positive.
Gesù oggi ci invita a non fuggire dalle croci dei nostri fratelli, a imitazione di Maria (vedi link in basso) siamo chiamati a permanere con loro, sostenendoli con la nostra solidarietà paziente e tenera.
La reazione dei lebbrosi
Il brano continua con i lebbrosi che non solo ottengono di essere ascoltati da Gesù, ma che altresì trovano guarigione dalla loro malattia. Eppure uno solo torna indietro: uno solo non morirà di una morte eterna.
Cosa accade? Succede che colui che fino a qualche minuto prima vedeva deperire progressivamente il suo corpo, mangiato dalla malattia, scoprendosi guarito al par degli altri, fa inversione a “U”, torna indietro. Torna da Gesù con animo rinnovato, con animo grato e gli viene concessa anche la salvezza eterna.
Cosa gli causa un bene così grande? La sua fede. Rileggiamo:
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!» .
Il lebbroso viene salvato non perché ringrazia Gesù, ma perché ha riconosciuto, diversamente dagli altri, che la sua guarigione non è stata frutto del caso, ma opera di quel rabbì che ha incontrato lungo la strada. La gratitudine che ha manifestato, è frutto, conseguenza, della sua fede.
ATTUALIZZIAMO
A. La lebbra nell’occidente del III millennio
Ci troviamo di fronte a un brano particolarmente attuale e valido non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini di oggi. Se fosse anche vero che la questione della lebbra possa sembrare lontana da noi uomini del “primo mondo”, eppure vero che ne soffriamo spiritualmente ogni volta che anziché costruire ponti e strade di comunicazione con i fratelli, innalziamo muri e barriere che ci allontani dagli altri. Siamo spiritualmente lebbrosi quando non riusciamo a perdonare il nostro prossimo, quando diventiamo chiusi all’accoglienza, alla fraternità, malati di una malattia morale che ci conduce inesorabilmente a una morte spirituale ed eterna, prima che corporale
B. Lasciarsi stupire da Dio
Quante volte, come i nove lebbrosi, non abbiamo dato come per scontata una grazia, abbiamo attribuito al caso un miracolo, una guarigione, una nuova vita che nasce? Quante volte ci siamo attribuiti i meriti per i nostri talenti? Quanto volte non abbiamo riconosciuto che certe conquiste nella vita le abbiamo ottenute perché Dio, nella sua somma benevolenza, ci ha donato le capacità per acquisirle?
C. Saper cambiare strada
Uno su dieci ha avuto accesso alla vita eterna, al Regno dei cieli, gli altri, invece, hanno dovuto conoscere altre realtà molto più tristi e buie. Se volessimo fare una statistica, sarebbe davvero triste constatare che all’interno di una comunità parrocchiale o religiosa, solo il 10% fa davvero sul serio con Cristo e sarà salvato, su un totale che comunque dice di amarlo e si riempie la bocca di parole altamente teologiche.
Se la nostra fede si ferma soltanto a parole, è sterile, non porta alla vita eterna. Dal lebbroso samaritano, oggi impariamo la necessità di una fede che sappia tornare sui suoi passi, convertirsi in un cammino che sappia mettersi in discussione, tornare indietro, alla fonte. Se viviamo nella pretesa di essere giusti e non aver bisogno di fare una revisione di vita, non imitiamo che quei nove lebbrosi che camminano dritti: sanati e dannati.
Se il nostro incontro con Cristo, non ci rinnova ogni giorno, interiormente ed esteriormente, vuol dire che avremo reso inutile una grazia dal valore vitale, avremo sciupato l’occasione della nostra vita. Dalla capacità di ritornare sui propri passi si giudica se un uomo vive di fede o di apparenze, di gratitudine o di pretese.
Il lebbroso di Samaria, tornando da Gesù, ha compreso che su questa terra è molto più importante avere l’anima salva che il corpo guarito. E noi?

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