XVII domenica del tempo ordinario – anno C
Gn 18, 20-21. 23-32; Sal 137; Col 2, 12-14; Lc 11, 1-13
Tema portante della liturgia della Parola di questa domenica è la preghiera, o meglio, la sensazionale portata della supplica come possibilità di commuovere il cuore di Dio.
Già nei mesi precedenti, la Parola di Dio ci ha permesso di focalizzarci su questo aspetto del credente, invitandoci a riqualificare il nostro rapporto affettivo con il Signore (vedi link in basso).



Prima lettura
Dal libro della Genesi (Gn 18,20-21.23-32)
In quei giorni, disse il Signore: «Il grido di Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!».
Quegli uomini partirono di là e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora alla presenza del Signore.
Abramo gli si avvicinò e gli disse: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lontano da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lontano da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutto quel luogo».
Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere: forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne troverò quarantacinque».
Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola: forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci».

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Dio intende mettere fine al peccato di Sodoma. Il cuore degli uomini non ascolta più l’esortazione alla conversione ma scende in una spirale crescente di violenza. Prima di mettere in opera il suo piano, però, si rivolge al suo amico Abramo. A lui confida quello che vuole fare.
Di fronte al possibile disinteressamento di chi potrebbe dire: “alla fine la cosa non riguarda me, ma quella gente”, l’atteggiamento di Abramo è completamente diverso. Tra gli abitanti di quella città, infatti, c’era Lot quel nipote ribelle, suo erede fino a quel momento, visto che ancora il patriarca non è stato benedetto dalla grazia di poter essere padre. Lot, infatti, non molto tempo prima gli aveva fatto un gran bello sgambetto: si era preso parte dei suoi possedimenti, e quelli dello zio e, insieme ad essi, per lui aveva scelto la regione più lussureggiante nella quale vivere, abbandonando l’anziano parente in una località decisamente arida.

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La cosa interessante è che Abramo non solo non cova sentimenti di rabbia o vendetta nei riguardi di chi l’ha ferito tanto impunemente, ma rivela di averlo già perdonato nel suo cuore, tanto che si impegna, scendendo a patti con Dio – si tratta di un vero e proprio braccio di ferro –, perché grazie alla presenza di Lot e della sua famiglia, gli abitanti di Sodoma possano essere risparmiati dalla sorte che incombe su di loro.
Se questo sembra poco, pensate anche a quanto Abramo si impegni a fare in modo che Dio risparmi la città, nonostante la fine che merita, facendo leva sulla certezza che almeno una persona giusta risieda tra quelle mura. Sembra quasi che il patriarca voglia ricordare a Dio quale sia la sua vera natura, il suo essere misericordioso, e che non potrà mai permettere la morte di un innocente.
Cristo non necessita di cristiani mormoratori, ma santi
Ma non solo. Pensate. La quasi santità di un solo uomo, Lot, controbilancia tutto il male di una intera città. Quanto più dovremmo farci santi noi, se ci fermassimo solo un attimo a pensare che in una società così corrotta e votata all’autodistruzione, non ci sia bisogno di chi si lamenti e mormori, ma di chi attivamente decide di controbilanciare il dilagare del male con la propria santità di vita.
A cosa serve lamentarci delle ingiustizie e del male nel mondo? A cosa serve dire che una persona non è buona, o gridare al mondo che chi avrebbe dovuto fare il bene ha fatto il male? Alla fine della nostra vita ci sarà chiesto del nostro operato, non di quello degli altri! Prima di lamentarci di una persona con incarichi di responsabilità che non opera come vorremmo, ci siamo ricordati che abbiamo il dovere di pregare per la conversione dei peccatori e per la santificazione di coloro che ricoprono ruoli di governo?
Chi ti impedisce di amare? Forse esiste un comandamento di Gesù che ci invita a lamentarci del prossimo, o non piuttosto di pregare per i nemici?
La preghiera di Abramo, il suo coraggio, sono il più alto grado d’amore che oggi siamo chiamati a imitare: pregare per gli sconosciuti, per coloro che meriterebbero l’ira di Dio, per coloro che ci hanno fatto soffrire. E farlo, nel silenzio e nel nascondimento, proprio come ha fatto lui. Chi degli abitanti di Sodoma, ringrazierà Abramo per aver avuta salva la vita? Nessuno!
Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 11,1-13)
Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite:
“Padre,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
e perdona a noi i nostri peccati,
anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
e non abbandonarci alla tentazione”».
Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”; e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
Per Gesù la preghiera è il respiro di tutta la sua vita, prima di prendere qualsiasi decisione, egli prega. Non passa inosservato questo suo aspetto così la gente gli chiede di condividere il suo modo di pregare perché possano anche loro fare la sua stessa esperienza.
Signore, insegnaci a pregare
Il discepolo anonimo, che fa questa proposta a Gesù, non gli chiede semplicemente di insegnargli una preghiera, come una formula efficace per piegare la volontà del Padre. Quello che viene chiesto a Gesù è di poter fare la sua stessa esperienza di intimità con Dio, la capacità di entrare in relazione con il Padre, nella stessa maniera in cui la fa Gesù.
Alla base della richiesta del discepolo, c’è il desiderio di capire come dialogare con il Signore, quali atteggiamenti adottare. Si tratta di capire, di apprendere, quali passi adottare per osare entrare in “tu per tu” con colui che è l’Onnipotente, il Creatore. Così Gesù svela qualcosa di sé ai discepoli, rivela qual è il suo cammino nell’approcciarsi al Padre.
Entrare in relazione con qualcuno, diventare amici, non è mai qualcosa di scontato. Non basta semplicemente desiderarlo, ma si tratta di fare un percorso di apprendimento del mistero dell’altra persona, imparare la sua lingua, il modo di esprimersi, la sua storia per non ferirlo.
Padre
Proprio perché la preghiera implica una relazionalità affettiva con Dio, Gesù invita i discepoli ad inaugurare la loro preghiera con il sostantivo “padre”. Si tratta di porsi alla presenza di Dio e riconoscere i ruoli dei partecipanti a quest’incontro. La dimensione affettiva emerge nel farsi Padre dalla parte di Dio, il suo abbassarsi verso la creatura cercando un contatto più intimo e famigliare.
Questa dimensione verticale della relazione uomo-Dio, richiama in maniera implicita, ma non meno chiara, quella orizzontale, riguardante, cioè, la relazione uomo-uomo. Cosa significa? Se Dio, nella sua immensa tenerezza e nella sua misericordia, si abbassa sulla creatura, imperfetta e peccatrice, e se ne fa Padre, ciò significa che anche il discepolo che si pone in preghiera deve abbassarsi verso il suo prossimo e farsi suo fratello. Senza questa condizione, il cristiano che intenda porsi in preghiera, sta soltanto perdendo tempo, si “illude con se stesso”, come dice il salmista del malvagio (Sal 36,3). Gesù, dopotutto, lo aveva detto chiaramente in un’altra circostanza: non ci può essere vero culto a Dio, senza riconciliazione fraterna. Leggiamo:
Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono (Mt 5,23-24).
Sia santificato il tuo nome
Che senso ha questa affermazione? Forse il nome di Dio non sia sufficientemente santo, per cui l’orante è chiamato ad augurarsene e ad augurarglielo?
In realtà dopo che l’orante ha riconosciuto il mistero di Dio che, come Padre, si china verso la miseria dell’uomo, e a partire da questo comprende meglio il mistero della sua persona come uomo e donna di relazioni imprescindibili, ecco che ora chiede che il nome di questo Dio di fronte al quale si è messo di fronte, con buona predisposizione, chiede che il suo nome sia santificato, cioè glorificato, nella sua stessa persona. L’orante, ovvero, è chiamato ad essere riflesso della santità di Dio, testimone silente della grandezza di Dio attraverso la sua vita. Da qui l’augurio che ogni uomo possa fare questa esperienza di conversione e santificazione personale.
Venga il tuo regno
Gesù ci ricorda che questa vita non è tutto quello che c’è da aspettarsi: c’è molto, molto di meglio. Siamo chiamati a riconoscere che siamo pellegrini di passaggio, sempre in cammino verso una meta chiara e ben definita: il Regno dei cieli.
La Chiesa delle origini si differenziava per questa preghiera continua al Padre, che, una volta risorto, il Signore Gesù tornasse presto nella sua gloria per il giudizio finale e instaurare il suo Regno contraddistinto dalla perenne gioia e pace. San Pietro, poi, nella sua prima lettera, invitando i cristiani delle comunità da lui fondate, chiede di vivere in questa attesa e affrettare la venuta del Regno di Dio. Leggiamo:
Dato che tutte queste cose dovranno finire in questo modo, quale deve essere la vostra vita nella santità della condotta e nelle preghiere, mentre aspettate e affrettate la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli in fiamme si dissolveranno e gli elementi incendiati fonderanno! Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia (1Pt 3,11-13).
La prospettiva escatologia per il cristiano, si rivela come proposta imprescindibile per fondare la sua speranza e vivere questa vita con tutte le sue prove, gioie e affanni, con una leggerezza diversa.
Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano
La richiesta situa l’orante all’interno di quella tradizione biblica che rimonta le sue origini all’esodo di Israele nel deserto, lì dove nel più grande disagio, Dio rivelò la sua tenerezza nel provvedere quotidianamente al suo popolo, inviando la manna di giorno (che il popolo rese farina col quale cuocere dei pani) e le quaglie di notte (per un ulteriore approfondimento rimandiamo ai nostri articoli: “Cos’è che fonda la tua fede?” e “Nutrire l’anima“).
In questo caso, chiedendo ogni giorno il pane quotidiano, Gesù invita ai suoi discepoli a vivere in questa relazione di totale dipendenza con Dio, per poter sperimentare la sua tenerezza. Si tratta, infine, di smettere di confidare unicamente in se stessi e sulle proprie capacità, ma unicamente in Dio appunto. Egli provvederà il pane necessario per quel giorno.
Qui, certamente, non è sottesa una sorta di tirchieria divina, ma appunto il rifiutare la logica della corsa all’accaparramento, dove il ricco si arricchisce sempre di più, e il povere vive sempre più nell’indigenza.
Ma non solo. Il pane quotidiano ha anche una valenza sacramentale, rimandando a quel pane spezzato che è il corpo di Cristo celebrato ogni domenica sugli altari di tutte le Chiese. Questo, più di ogni altro pane, sazia la fame dell’uomo: fame di senso per la sua vita, fame di presenza di Dio, della sua grazia del suo amore. Pane che impone all’uomo la convivialità dello stare insieme, uniti attorno all’altare come comunità.
E perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore
Se nell’inizio della preghiera la relazione riconciliata tra gli uomini era implicita, ecco che ora viene ulteriormente esplicitata in questo versetto.
Gesù rivela che la condizione per avere il perdono dei nostri peccati da Dio, vivere con lui riconciliati e avere accesso alla salvezza eterna, è la riconciliazione fraterna. È un tema ricorrente nell’insegnamento di Gesù, un elemento tanto importante che lui non teme di ripetere in diversi modi e circostanze tanto ai suoi discepoli, come agli avversari (per approfondire questo tema così cruciale rimandiamo ai nostri articoli: “Il pericolo dell’esclusivismo“, “Accogli l’ospite divino” e “Servitori non re. La comunità secondo Gesù“).
Il perdono dei nostri peccati, dunque, non è condizionato dalla quantità delle nostre preghiere, né per i digiuni, le elemosine o le penitenze, ma dalla nostra capacità di aver già perdonato il nostro prossimo, prima ancora di osare chiedere il perdono a Dio. Gesù è chiaro, l’espressione del Padre nostro in questione, non si presta a dubbi o a seconde interpretazioni. Qui non si dice “perdona i nostri debiti, come noi li perdoneremo”. Il verbo usato da Gesù non è un futuro ipotetico, ma un presente attuale, già realizzato dall’orante.
e non abbandonarci alla tentazione
Nella nuova traduzione del Padre nostro la Chiesa ha preferito cambiare l’espressione “non indurci” con “non abbandonarci”. Si tratta certamente di una soluzione più efficace rispetto alla precedente, ma ancora non del tutto soddisfacente.
È chiaro che Dio né induca alla tentazione, e men che meno abbandoni l’uomo in balia di se stesso e delle forze delle tenebre. Una cosa però è chiara: la tentazione di per sé non è un peccato, ma implica la possibilità di un superamento personale, per il cristiano che coraggiosamente ha iniziato la sua battaglia personale con la parte oscura di se stesso. >La tentazione, diventa criterio di verifica per il cammino del cristiano, sancisce a che punto è il suo cammino, la qualità del suo discepolato.
Tuttavia con l’attuale richiesta l’uomo si riconosce fragile dinanzi a Dio, consapevole che senza il suo aiuto egli resta schiavo di se stesso e delle proprie fragilità. Si riconosce, con profonda umiltà, che da soli siamo niente e che persino usciremmo sconfitti con il nostro combattimento interiore, se il Signore non ci desse la forza per saper vincere le tentazioni e non cadere nel peccato che esse propinano.
Per questo, nella misura in cui il cristiano si sforza di vivere alla presenza di Dio, scegliendolo come amico e alleato nella sua lotta interiore, temerà sempre meno le tentazioni, vivrà illuminato dalla fede e rinfrancato dalla speranza, e affrontandole vittoriosamente accumulerà meriti per il Regno dei cieli.
La parabola dell’amico importuno
Le case al tempo di Gesù: non c’erano letti ma dei giacigli che si adagiavano al suolo e tutti i membri della famiglia dormivano uno accanto all’altro. Per il padre di famiglia andare a prendere il pane significava rischiare di fare male ai bambini o svegliare tutti i membri per andare nella stanza del pane e poi tornare alla porta.
Chi dall’altro lato bussava alla porta sapeva di queste difficoltà eppure per l’urgenza che ha, visto che come abbiamo visto domenica scorsa l’ospitalità era sacra, continua a bussare fiducioso che il suo amico non lo lascerebbe a mani vuote.
Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono.
Molte cose nella nostra vita sono importanti: il lavoro, la salute, gli affetti più cari, la famiglia, la realizzazione personale. Eppure esiste qualcosa di molto più importante che Gesù ci invita a chiedere con insistenza come l’amico importuno della parabola: lo Spirito Santo. Terza Persona della santissima Trinità, lo Spirito Santo è il primo dono del Risorto ai credenti: energia vitale e amorosa del Padre e del Figlio, capace di illuminare la nostra mente per compiere le scelte giuste, per donarci il sano discernimento, per dire la parola giusta al momento giusto. È lui che ci insegna ad amare Dio, come Dio si aspetta da noi, è lui che toglie il velo della nostra cecità e ci permette di riconoscere la presenza di Cristo nella nostra vita di tutti i giorni, è lui che ci fa riscoprire che l’altro ci è fratello, non avversario.
Quando nel cuore abbiamo qualche richiesta da fare a Dio, per quanto urgente essa sia, non accontentiamoci delle briciole, non chiediamo una semplice grazia o una cosa di cui abbiamo bisogno, chiediamo Dio stesso. Tutto il resto per quanto importante, viene di conseguenza.

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Fame della Parola di Dio?
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