XV domenica del tempo ordinario – anno C
Dt 30, 10-14; Sal 18; Col 1, 15-20; Lc 10, 25-37
INTRODUZIONE TEMATICA
La volontà di Dio per molti cristiani è un mistero. A volte Dio può essere percepito come il grande assente della nostra vita, il mistero insondabile, l’indecifrabile, persino il lontano.

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Come se non fosse sufficiente, Gesù insegnandoci la sua preghiera ci invita ad attuare, incarnare, questo volere del Padre per noi e per il mondo intero:
Padre nostro che sei nei cieli,
sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno,
sia fatta la tua volontà,
come in cielo così in terra (Mt 6,9b-10).


La liturgia della Parola di questa domenica, prova a darci delle indicazioni chiare e concrete su cosa sia questa volontà di Dio, cosa egli si aspetti da noi nella concretezza della nostra vita di tutti i giorni.
Prima lettura
Dal libro del Deuteronomio (Dt 30,10-14)
Mosè parlò al popolo dicendo:
«Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima.
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».
Il popolo di Israele ormai liberato dalla schiavitù in Egitto, è in cammino verso la terra promessa. La meta ormai è prossima. Al suo condottiero, intermediario di Dio, non resta che dare le ultime indicazioni perché il popolo consolidi la sua identità di popolo eletto e prescelto dall’unico e solo Dio YHWH.
L’ammonizione che il condottiero dà a Israele, è quello di rimanere fedele al suo Signore e a tutti quei precetti di ordine morale, sociale, spirituale e liturgico, che sono stati dati loro in questi quarant’anni di cammino. Nella misura in cui il popolo riuscirà a mantenersi fedele ad essi, potrà camminare compatto nell’unità sociale e nella fedeltà al Dio liberatore.
Da questo momento in poi, Israele non potrà accampare scuse, perché Dio ha parlato chiaramente, evitando un discorso di tipo astratto, teologico o filosofico, ma entrando nel concreto della vita della gente. Per questo motivo Mosè afferma:
Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. […] Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica.

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Per una comunicazione secondo coscienza
Mosè parla di una legge che mette in accordo bocca e cuore. È un dato interessante, perché il cuore per la cultura biblica non era ritenuto la sede degli affetti, ma della coscienza. Quindi in qualche modo il condottiero di Israele, rivela che se la legge di Dio in te, non permette un’armonia tra questi due organi, vuol dire che qualcosa non sta funzionando in noi. Potremmo quindi domandarci se prima di parla, comunicare, scrivere sui social networks, ci pensiamo davvero a quello che vogliamo dire. Mosè fa della comunicazione degli uomini, prima ancora che questa divenisse massificata come ai nostri giorni, una questione di coscienza (abbiamo trattato di questo argomento in un nostro recentissimo articolo a cui rimandiamo cliccando sul link in basso).

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La seconda provocazione che cogliamo dall’affermazione di Mosè è che in fin dei conti la volontà di Dio per noi è qualcosa di semplicissimo, i complessi siamo noi – e lo siamo a tal punto da divenire complessati –. In effetti, la guida di Israele, afferma che esiste una legge di Dio inscritta nel nostro cuore, nella nostra coscienza e che col già seguire questa basterebbe per ottemperare alla volontà divina.
Facciamo un esempio: non c’è bisogno che io ricordi tutti e dieci i comandamenti per sapere che uccidere, rubare, tradire mia moglie sia un peccato. Ce lo dice già la coscienza! Qui però, lo ripetiamo, non si tratta di seguire il proprio cuore, non è una questione romantica quella posta in essere da Mosè, ma di coscienza. Dopotutto il cuore si può ingannare, ci fa percepire un colpo di fulmine come l’amore più grande della nostra vita, ma non è che una percezione “a pelle”, superficiale. Alla coscienza, invece, non la si inganna perché si radica nel tessuto sociale e morale più profondo insito nell’uomo. Potremmo quasi dire che essa è la parte più percepibile dell’anima, nel suo essere eterea ed eterna. Per questa ragione il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel XVIII secolo poté affermare:
La coscienza non inganna mai; è la vera guida dell’uomo: essa sta all’anima come l’istinto sta al corpo. (Jean-Jacques Rousseau)
Il fatto, poi, che si tratti di una legge così vicina all’uomo, fa comprendere che questi non potrà più accampare scuse al momento del suo giudizio finale, perché Dio, appunto, ha parlato molto chiaramente.
Salmo responsoriale
Salmo 18
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante.
Il Salmista loda il Signore perché ha riconosciuto che questi non impone sulle spalle degli uomini, comandamenti come pesi, per tenerli piegati a sé, assoggettati come schiavi a un padrone al quale stare sottomessi per non subire castighi deplorevoli. Tutt’altro. L’autore di questo Salmo, loda e ringrazia Dio perché ha riconosciuto che vivere i suoi comandamenti, fa bene all’uomo, lo rende libero dalle sue pulsioni, lo apre ad amare il fratello.
Per questa ragione dà la sua testimonianza dicendo che la scoperta della legge di Dio nella sua vita, gli ha provocato la gioia del cuore, ha reso il suo sguardo limpido, luminoso, perché lo ha reso una persona trasparente, senza finzioni né doppi fini (per un maggiore approfondimento, rimandiamo ai link in basso).



Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,25-37)
In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».
Introduzione
Il contesto del brano evangelico di oggi più che essere di tipo narrativo, come una lettura consequenziale di un determinato vangelo, è di tipo tematico. Chi avrà letto il Vangelo di questa settimana, nei giorni feriali, si sarà reso conto di un certo insistere di Gesù sull’amore fraterno, come condizione discriminante tra chi è un suo vero discepolo, e chi gioca a farlo. Per avere un’idea più chiara, rimandiamo ai link in basso.



Su questa scia tematica, dunque, si inserisce il brano evangelico di oggi, come risposta all’interrogativo proprio di questa domenica: cosa si aspetta Dio da me? Qual è la sua volontà per la mia vita? Cosa posso fare per guadagnarmi un angolo di Paradiso?
Il caso del teologo
L’evangelista Luca lo mette in chiaro fin da subito: il dottore della legge, l’equivalente dei teologi di oggi, ha intenti piuttosto controversi nei riguardi di Gesù. Non gli si avvicina per avere chiarimenti, né per conoscere meglio la sua persona e la sua dottrina. Egli va dal Nazareno col serio intento di provare a metterlo in difficoltà. Egli che ha fatto dei cavilli la sua teologia, per piegare ai suoi bisogni la sana religiosità di Israele, pervertendo se stesso e la morale a cui obbliga gli altri, si trova ben presto spiazzato dalla disarmante semplicità di Gesù e del suo insegnamento.
In un nostro precedente approfondimento evangelico, abbiamo fatto presente ai nostri lettori, quanta briga si prendevano gli avversari di Gesù pur di tentare di screditarlo. E talvolta facevano dei lunghi cammini, giorni di strada, solo per provare a mettergli i bastoni tra le ruote e provare a fargli deserto attorno (vedi link in basso).

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Il loro atteggiamento è davvero goffo e a distanza di tempo assume le note del ridicolo. Eppure quanto è attuale quel atteggiamento di chi si accanisce con una persona e le prova tutte pur di screditarlo: mormora alle sue spalle, giudica, critica, augura persino il male ma alla fine ne resta sempre il perdente della situazione, perché l’altro continua con serenità la sua vita.
Non è un caso che questo dottore della legge, Maestro di spiritualità e teologia dell’epoca di Gesù, già col solo aprire della bocca si mette in ridicolo:
«Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»
Possibile che un uomo dotto come lui, sta ancora a questo livello? Sarebbe come se un cristiano che ogni domenica celebra la S. Messa, ma poi non sa i rudimenti della liturgia: non capisce che l’ostia è veramente il corpo di Cristo, con la sua divinità, non comprende che in chiesa si sta in un certo modo, con un abbigliamento adeguato, che non ci si sieda in maniera sguaiata, che non stia tra i banchi solo per mormorare e criticare gli altri.
Comprendendo, poi, la brutta figura che ha fatto, dandosi la risposta giusta alla domanda che egli stesso ha posto, cerca infine di giustificare il suo atteggiamento maldestro:
Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
L’ostilità perpetuata nei confronti degli altri pone anche oggi i cristiani di tutti i tempi, nella stessa ridicola situazione del dottore della legge. Alla fine, non ne vale mai la pena.
Sii il prossimo, di chiunque
Se per la religiosità ebraica di quell’epoca, il prossimo era ritenuto il solo israelita, Gesù amplia questo raggio d’azione, lo universalizza, lo rende cattolico, aprendo a una fraternità universale, che non preveda barriere di sorta.
Commentando questo passo Papa Francesco afferma:
«Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana» (Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 67).
Gesù è uomo talmente pratico che evita le sottigliezze giuridiche. Quando si tratta di amare, beneficare qualcuno, quando si mette in gioco la vita, la riconciliazione, la grazie a le misericordia non guarda in faccia a nessuno e ci invita a fare lo stesso.
Cosa ti impedisce di amare?
All’interno della parabola vengono messe in atto scelte di stampo egoistiche che alla fine conducono un uomo sul baratro della morte. I briganti volevano solo derubare lo sventurato in cammino, che resti mezzo morto sul ciglio della strada è un accidente, qualcosa che è capitato: una conseguenza di quello che doveva essere semplicemente il furto di alcuni beni che serviva ai loro scopi.
Allo stesso modo, il sacerdote e il levita si accorgono che c’è un uomo riverso per terra, ma alla fine il contatto con il suo sangue li avrebbe resi impuri, e quindi scomunicati dalla vita religiosa e sociale dell’epoca, ed essi preferiscono salvaguardare la loro stessa integrità, l’immagine che si sono costruiti con fatica e dedizione, agli occhi del mondo. Per loro, la loro reputazione vale più della vita di quell’uomo!
Le conseguenze dell’orgoglio
Allo stesso modo, tante volte nella nostra vita, decidiamo di non fare un passo verso gli altri, di non fare un gesto di gentilezza e amore, solo per paura di rimetterci la faccia. Così le fratture si ingigantiscono ancora di più e i divari si fanno incolmabili. Eppure se solo prestassimo orecchio a quell’insegnamento di Gesù, quando rivela su cosa verterà il giudizio di Dio alla fine della nostra vita:
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,41-45).
Parliamoci chiaro. Quando andavamo a scuola, se avevamo una soffiata sul tema di un compito in classe, il giorno prima cercavano di approfondire quel tema, lo studiavamo attentamente così da arrivare preparati. perché allora se Gesù ci dice che saremo giudicati in base all’amore che avremo dato al nostro prossimo non lo facciamo? Davvero preferiamo essere condannati per l’eternità, piuttosto che fare un semplice atto di umiltà? A tal punto ci teniamo alla nostra dignità davanti agli altri? Ne vale davvero la pena?
Per Gesù l’amore fraterno è davvero la discriminante che può causarci salvezza o dannazione eterna. Lo spiega anche in un’altra parabola: quella del povero Lazzaro e del ricco epulone (Cfr. Lc 16,19-31; approfondisci al link in basso).

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Tra qualche minuto faremo la Comunione e prendere l’eucaristia sottintende l’essere già in comunione con Dio, con la Chiesa e con gli altri. Vogliamo davvero ancora fingere di esserlo? Il primo che lo fece fu Giuda: accettò il boccone di Cristo nell’ultima cena, ma nel cuore aveva il progetto di tradirlo da lì a qualche minuto, questo fece sì che nel suo cuore ebbe un altro ospite, tutt’altro che desiderabile: satana. È quello che leggiamo nel tredicesimo capitolo del Vangelo secondo Giovanni:
E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui (Gv 13,26b-27a)

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L’identità dell’uomo lasciato mezzo morto sul ciglio della strada è molto interessante. Gesù apre con queste parole la sua parabola:
Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico
Si tratta, quindi, non propriamente di un uomo qualsiasi, ma di un israelita tornato dalla ortodossissima Gerusalemme, probabilmente per prestare culto al grande tempio costruito dal re Salomone. Secondo il ragionamento del dottore della legge, quindi, il prossimo di quest’uomo non sarebbe affatto il samaritano che lo soccorre, ma proprio coloro che lo ignorano: il levita e il sacerdote.
Gesù sta rivelando qualcosa di interessante e cioè che proprio le guide spirituali di Israele per mantenere intatta la loro fama davanti agli altri, hanno tradito il loro compito primario, hanno ceduto a un egoismo isolante, egolatrico, ripiegato su se stesso. Di fronte all’insuccesso delle guide di Israele, Gesù sottolinea maggiormente la necessità di un’apertura totalizzante nelle relazioni.
Ma non solo. Veri protagonisti del suo racconto non solo le persone dabbene dell’epoca, ma un uomo insanguinato sul ciglio della strada, reso impuro dal suo stesso sangue (vedi approfondimento al link in basso), e un samaritano che vive una religiosità a metà, sincretista e per questo mal visto dagli israeliti.

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Gli abitanti della regione di Samaria erano a tutti gli effetti israeliti come quelli della Giudea. Certo, nel corso della storia le due regioni si divisero in due regni diversi ed ebbero percorsi storici differenti, di cui il primo finì per perdere quella che era ritenuta la purezza della religiosità, finendo per stringere matrimoni con gente proveniente dal mondo pagano. Per questa ragione samaritani e giudei non si vedevano affatto di buon occhio, tanto che i primi appena seppero che un uomo, Gesù, diretto a Gerusalemme voleva fermarsi all’interno di uno dei loro villaggi non glielo permisero (Cfr. Lc 9,51-62; approfondisci al link in basso) .

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Ebbene, proprio questo samaritano, vedendo un uomo riverso a terra, non sta lì a sindacare se appartenga o meno al suo gruppo etnico, lo soccorre e basta senza troppe storie se il contatto col suo sangue lo renda impuro.
Consapevole che ci è riverso a terra sia nemico della sua gente, e per questo suo nemico, decide, in qualche modo, di dargli una seconda opportunità. Tutti ne abbiamo bisogno, costantemente, da Dio e dagli altri, per crescere, fortificarci nello spirito e, alla fine, santificarci.

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Per questo Papa Francesco, nell’enciclica sopracitata afferma:
«Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. Non dobbiamo aspettare tutto da coloro che ci governano, sarebbe infantile. Godiamo di uno spazio di corresponsabilità capace di avviare e generare nuovi processi e trasformazioni. Dobbiamo essere parte attiva nella riabilitazione e nel sostegno delle società ferite. Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene» (Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 77).
Se la sofferenza non ci rende solidali
Le attenzioni che il samaritano riversa sul malcapitato, rivelano quella profonda tenerezza di chi è capace di immedesimarsi col dolore altrui.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”.
Viviamo in un’epoca tormentata dalla cronaca nera, che esalta l’azione cruenta dei film e delle serie tv, un’epoca che ci sta rendendo tutti inevitabilmente cinici, attenti solo ai nostri interessi e a quelli del piccolo gruppetto di amici e parenti. L’invito è quello di non svendere la nostra umanità, di non lasciarci lobotomizzare il cervello rendendoci cinici calcolatori di interessi propri.
Il samaritano ama il giudeo gratuitamente e in maniera piena esaustiva. Non gli basta assicurarsi che resti in vita, ma si preoccupa anche del recupero completo delle sue forze, lasciandolo in un albergo con una certa somma assicurata all’oste. A lui, non interessa, poi, essere ringraziato, né men che meno ricambiato per quello che ha fatto. Così, allo stesso modo, se il nostro amore non mira a questa purezza di intenti, esso non è vero amore. La carità, lo ripetiamo, è tale solo nella misura in cui fa male al nostro orgoglio (e alle nostre tasche, come in altri contesti ha ripetuto più volte Papa Francesco).

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