XIV domenica del tempo ordinario – anno C
Is 66, 10-14; Sal 65; Gal 6, 14-18; Lc 10, 1-12. 17-20
INTRODUZIONE
Generalmente la liturgia della Chiesa ci offre già due domeniche dedicate al tema della gioia: nel tempo di avvento e di quaresima, come sosta rinfrancante dal periodo penitenziale che si vive (vedi link in basso).


La gioia di queste due domeniche, sembra trasbordare i confini di un periodo liturgico penitenziale, creare spazi adatti all’interno di essi e andare oltre raggiungendo noi, nel bel mezzo del tempo ordinario.
Così, tema della liturgia della Parola di questa domenica è proprio la gioia che trasborda in maniera mistica, umanamente immotivata, dal cuore dell’uomo che si mantiene fedele a Dio e scopre nella sua vita e nel corso della storia della sua vita, e di quella dell’umanità tutta, la sua mano salvifica, tenera e provvidente, che è poi la stessa gioia provata dalla Vergine Maria agli esordi della sua vocazione (vedi link in basso).



Prima lettura
Dal libro del profeta Isaia (Is 66,10-14)
Rallegratevi con Gerusalemme,
esultate per essa tutti voi che l’amate.
Sfavillate con essa di gioia
tutti voi che per essa eravate in lutto.
Così sarete allattati e vi sazierete
al seno delle sue consolazioni;
succhierete e vi delizierete
al petto della sua gloria.
Perché così dice il Signore:
«Ecco, io farò scorrere verso di essa,
come un fiume, la pace;
come un torrente in piena, la gloria delle genti.
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò;
a Gerusalemme sarete consolati.
Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore,
le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba.
La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi»
Un breve passo indietro. Il contesto storico-biblico
Il profeta Isaia è spettatore della più grande tragedia vissuta dal popolo di Israele: l’esilio della parte più sana dei cittadini in terra straniera, pagana, impure. Mandato da Dio, il profeta aveva prestato al Signore la sua voce, chiedendo ai potenti della sua epoca di evitare un conflitto con la potentissima Babilonia perché ne sarebbero usciti perdenti. Ma il regnante con i suoi consiglieri, chiusi nella loro ottusa superbia, dando per scontato che Dio si sarebbe piegato ai loro capricci di onnipotenza, aiutandoli a vincere quella insensata guerra, non lo ascoltarono. Anzi perseguitarono il profeta perché osò portare un parere contrario ai sogni di grandezza dell’intero popolo.
Guardando oggi il nostro panorama internazionale, sembra che l’atteggiamento dei potenti di Israele e dei suoi sostenitori, sia davvero quanto mai attuale. La guerra, i sogni di grandezza, di espansione a costa degli altri, del prossimo, non porta mai a niente di buono per nessuno. Al contrario, spesso si rivela uno dei più pericolosi boomerang.
È quello che accadde a Israele. Dando per scontato che Dio sarebbe stato sempre al suo fianco, forte di questa predilezione, ha avuto la presunzione di manipolare Dio stesso e insieme il corso degli eventi. Mentre alcuni cercavano il Signore nella forza militare, questo si rendeva presente attraverso l’umile voce di un uomo comune, un profeta, e invitava ad abbandonare i disegni di potere e sopraffazione sulle altre nazioni.
Da qui Israele, come qualsiasi altra nazione nel tempo e nel mondo, si rende poi colpevole delle sue stesse azioni, finisce per subire quel danno che avrebbe invece voluto inferire agli altri.
Dal canto nostro, noi come cristiani, non possiamo che aborrire ogni tipo di violenza, da qualsiasi angolo della terra essa spiri. Di fronte a uno scenario geo-politico così complesso, trovare cristiani che tifino per la vittoria di una nazione su di un altro, anziché tacere e pregare per la pace e per le centinaia di migliaia di vittime ignorate e abbandonate.
Nonostante tutto, gioisci!
Vittima delle sue azioni, della sua superbia, della sua presunzione, Israele non solo non subisce un castigo divino (perde la sua guerra non perché Dio si è messo contro, ma perché ha messo in atto una politica suicida), ma gli viene concesso di riscattarsi.
In effetti il Signore stesso si inserirà, ancora una volta, nel tessuto della storia del popolo eletto e farà in modo che al tempo opportuno, in Babilonia, sorga un nuovo re che permetterà loro di tornare in patria e di ricostituirsi come popolo. Il regnante in questione è Ciro.
Ecco allora il motivo della gioia: il tempo della deportazione sta per finire, Dio non si è dimenticato del suo popolo, non lo ha abbandonato al suo peccato, ma si è impegnato personalmente per il suo riscatto. Ecco allora la gioia mistica che proviene dal ricevere un dono tanto grande quanto insperato e soprattutto immeritato.
Ma questo riguarda anche tutti noi. Possiamo anche noi fare questa esperienza gioiosa di Dio, nella misura in cui decidiamo di riconoscerlo misericordioso, di celebrare liturgicamente questa sua tenerezza nel Sacramento della Riconciliazione, nel guardare la nostra vita riconoscendo che alla fine non è Dio a punirci, ma il nostro stesso peccato che si ripiega contro di noi. Perché alla fine dei conti, forse un giorno, finiremo per riconoscere quanto amore, bene, grazie e doni il Signore ci abbia concesso mentre noi non ce lo meritavamo.
Dal consegnare alla morte di croce il suo Figlio per noi, ai tanti piccoli e grandi miracoli quotidiani, tutto in noi e attorno a noi, parla dell’amore della Trinità nei nostri riguardi. Noi d’altro canto non dobbiamo far altro che guardarci attorno con uno sguardo nuovo, non dando più nulla per scontato, ma riconoscendo che in questa vita tutto sia un dono: dai talenti personali, ai successi e alle conquiste, dalla famiglia ai figli, dal lavoro alla provvidenza di Dio che non ci lascia mai da soli.
YHWH non è il grande giustiziere
Non raramente di fronte agli eventi drammatici della nostra vita, o di fronte alla tanta cronaca nera dei nostri giorni, siamo tentati di dire: ma perché Dio permette il male e la morte degli innocenti, e non si prende i criminali?
Chi la pensa così, ha una visione distorta di Dio stesso. Guarda il Signore più che come giusto giudice, come un giustiziere. Questi lo erano le divinità pagane dell’Olimpo, chiusi nel lusso del loro alto monte, punivano talvolta anche immeritatamente, gli uomini in base ai loro capricci.
Il nostro è un Dio diverso, che attende la conversione dell’uomo e aspetta fino all’ultimo suo respiro perché pentendosi si salvi dalla dannazione eterna. Per di più il brano di oggi ha degli accenni davvero interessanti, perché parla di un Dio che si comporta come la più tenera delle madri:
Così sarete allattati e vi sazierete
al seno delle sue consolazioni;
succhierete e vi delizierete
al petto della sua gloria…
Voi sarete allattati e portati in braccio,
e sulle ginocchia sarete accarezzati.
Come una madre consola un figlio,
così io vi consolerò.
In un altro passo del libro del profeta Isaia, Dio stesso lo aveva già accennato con toni piuttosto accesi:
Sion ha detto: “Il Signore mi ha abbandonato,
il Signore mi ha dimenticato”.
Si dimentica forse una donna del suo bambino,
così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?
Anche se costoro si dimenticassero,
io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,14-15).
Ecco allora che via via si svela il vero volto di un Dio gioioso, allegro, che ama con una tenerezza di madre. Per questa ragione l’apostolo Giovanni con tanta solennità nella sua prima lettera può affermare:
Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati (1Gv 4,7-10).
Salmo responsoriale
Salmo 65
Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».
«A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.
Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.
Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio,
che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia.
Ci troviamo di fronte al canto dei redenti: quello degli israeliti che finalmente dopo i cinquant’anni di esilio in terra babilonese, possono tornare in patria.
Potremmo anche dire, però, che questo deve essere il canto di gioia di ogni cristiano che lascia la Chiesa la domenica dopo aver celebrato la Santa Messa. Da qui dunque la provocazione: come viviamo la celebrazione eucaristica? Cosa ci lascia nel cuore? Con quale animo lascio la Chiesa? E soprattutto: sono in grado di condividere la bellezza e la gioia che il Signore mi ha offerto nell’Eucaristia?
Gli israeliti colmi di gioia per la grazia di Dio hanno sentito l’intima urgenza di condividere questa loro esperienza: la missionarietà, la testimonianza, la condivisione della nostra fede, sono anche per noi delle priorità?
Proviamo a rileggere questo Salmo, mettendolo in parallelo con la nostra vita personale: cosa ci suggerisce? Per cosa sentiremmo il bisogno di lodarlo, benedirlo e ringraziarlo? Abbiamo mai avuto il coraggio di farlo? E oggi per cosa vogliamo ringraziare il Signore? Quale impegno in suo favore, sentiamo di assumerci?

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 10,1-12.17-20)
In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città».
I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
Contesto
Il brano del Vangelo di oggi si situa in perfetta continuità con quello di domenica scorsa: Gesù ha deciso di intraprendere il grande viaggio che dalla Galilea lo avrebbe portato a Gerusalemme (Cfr. Lc 9,51-18,14), consapevole che lì avrebbe concluso drammaticamente la sua esperienza terrena.
Prima tappa di questo viaggio, lo abbiamo visto domenica scorsa, è un villaggio della Samaria che per tutta risposta non accetta il Messia tra le sue mura (vedi approfondimento al link in basso).

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Il brano di questa domenica, dunque, racconta di come Gesù a un certo punto del suo ministero si sia reso conto che alla fine il suo tempo a disposizione per beneficare la gente era poco e ristretto a una piccola area geografica, così per fare in modo che la misericordia e la grazia di Dio raggiungesse quante più anime in maniera capillare, manda settantadue dei suoi discepoli con degli incarichi ben precisi.

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La preghiera come imperativo
Il primo compito dei neo-missionari è la preghiera. Interessante perché tra tutte le attività dell’uomo di fede, questa sembra proprio una gran perdita di tempo. Lì dove l’azione, e la sua efficacia, viene assolutizzata, la preghiera sembra la cosa più futile al mondo. Questa mentalità pagana molto spesso serpeggia anche tra i banchi delle nostre chiese, dove la qualità di un cammino di fede, e persino della persona del sacerdote, si valuta in base al numero di persone sedute ai banchi. Questa non è la logica di Gesù. Il primo comando ai discepoli non riguarda propriamente un “fare”, ma un “amare”: pregare appunto. Senza di questo tutto diventa inutile.
Alla fine della nostra vita potremmo finire per essere lodati dagli altri come uomini e donne che hanno fatto tante cose anche buone, ma quello che dobbiamo domandarci è: era quello che Dio ci ha chiesto? Alla fine saremo giudicati non per la parola degli uomini, ma per quella di Dio.
Per questa ragione in un nostro precedente approfondimento biblico abbiamo voluto provocare i nostri lettori con queste affermazioni:
Un cristiano, dunque, perché possa dirsi tale, e non un ateo perbenista, deve saper perdere tempo ogni giorno per la preghiera, per entrare in una relazione profonda, intima e affettiva con Dio. E solo. Nella misura in cui questa relazione viene approfondita e vissuta, allora sarà capace di approssimarsi agli altri. La preghiera, dunque, come la missionarietà, non è un optional del cristiano, ma le condizioni perché il cristiano sia tale e non un millantatore da sacrestia (Scelte e atteggiamenti del vero discepolo di Cristo).

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Domandiamoci: in che modo stiamo cercando di viverla, attuarla, seguirla nella nostra vita? Che spazio stiamo dando alla preghiera? La riteniamo indispensabile come Gesù si aspetta dai settantadue discepoli e da noi?
Il comando alla preghiera da parte di Gesù ci apre a un’altra considerazione: che tipo di preghiera si aspetta dai suoi discepoli e da noi? Quella che lui che ai settantadue è una preghiera generosa, altruista: non si tratta di chiedere per se stessi, ma per gli altri e, soprattutto, per il Regno di Dio. Si tratta, cioè, di pregare per le vocazioni, non come qualcosa di facoltativo, ma come un vero e proprio comando perentorio da parte del Maestro.

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Mitezza, austerità e camminare diritto
Se la prima cosa che Gesù si aspetta dai discepoli, è che siano uomini capaci di una preghiera generosa, le altre due raccomandazioni aiutano qualsiasi uomo a discernere un vero discepolo di Cristo da un millantatore. Parliamo della mitezza come virtù, dell’austerità di vita e di un cammino diritto senza lasciarsi distrarre dai pettegolezzi di quartiere.
Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
L’atteggiamento che Gesù si aspetta dai discepoli, è dopotutto anche il suo. Egli infatti, con queste parole, nel Vangelo di Matteo, si rivolge ad essi:
Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita (Mt 11,29).
Come un predicatore col Rolex al polso non può risultare credibile nella testimonianza che intende dare, così un cristiano profondamente litigioso non farà altro che rinnegare il suo Battesimo.
Il camminare spediti, poi, senza salutare nessuno, rivela l’urgenza della predicazione che non prevede fermate di sosta: nulla è più importante della missionarietà. Se poi la sosta implica il lasciarsi inquinare l’udito e la mente dalle chiacchiere di quartiere, dalle mormorazioni, critiche e giudizi, ecco che il comando di Gesù si rivela ancora più attuale. Non dimentichiamoci infatti di come egli stesso metteva a tacere ogni lingua iniqua (vedi approfondimenti ai link in basso).



Pace e guarigione
La missione dei discepoli può iniziare solo una volta che essi avranno ottemperato alle precedenti condizioni. Qual è il loro compito? Portare pace e guarigione, che è poi tutto quello che il Signore si aspetta da noi: portare a tutti il messaggio di un Dio che essendo misericordioso ci impone di creare relazioni e non spezzarle. Allo stesso tempo ci invita a risanare i cuori affranti, essere portatori della sua consolazione. In che modo? Lo dice lo stesso Gesù ai discepoli:
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.
Testimoniare la prossimità del Regno è testimoniare la tenerezza di Dio che non lascia inascoltato nessun grido, non asciugata nessuna lacrima.
E alla fine… la gioia
Tornando al tema di questa domenica, ecco che emerge anche qui la gioia. Si tratta dell’esperienza dei discepoli che dopo la missione tornano da Gesù lodando Dio per quello che hanno vissuto. Certamente la missione non è stata facile, ma anche se in salita, il cammino è stato bello da percorrere perché hanno sperimentato concretamente la bontà del Signore, la sua tenerezza per gli ultimi, i diseredati.
I discepoli esultano di gioia non per se stessi, ma per coloro che sono stati beneficati dalla grazia di Dio nel nome di Gesù Cristo, gioiscono perché hanno sperimentato concretamente che Dio è buono.
Ma come se non fosse sufficiente, Gesù stesso dona loro un motivo in più per gioire. Rileggiamo:
Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli
I discepoli alla fine sono riusciti a mettere in atto tutte le raccomandazioni di Gesù e questo, inaspettatamente, ha prodotto per loro un’ulteriore grazia: meriti per il Regno dei cieli. Benché il loro impegno fosse fondato nella gratuità, Gesù rivela che il Signore è generoso con chi lo serve con altrettanta generosità. Per questo la missione dei discepoli, il loro inserirsi all’interno di una dinamica comportamentale non loro, ma dettata dal Nazareno, ha prodotto un’eccedenza di grazia che è andata oltre i normali destinatari del loro annuncio, andando a posarsi anche su di essi, sul loro futuro aperto all’eternità, sulla loro anima.
Il Signore, dunque, ci dona sempre nuove opportunità di gioia. Concede grazie in abbondanza a chiunque alla fine decide di fidarsi di lui, mettersi in gioco anche quando la sua volontà parrebbe non solo dura, ma anche poco efficace, improduttiva.
Ecco allora la provocazione per noi questa domenica: saper cogliere le sfide di Cristo, riconoscere che tutto ciò che lui vuole da noi è che siamo portatori di gioia per il nostro prossimo, così che essa possa essere moltiplicata anche per noi in maniera misteriosa dall’eccedenza della tenerezza divina.
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