Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,31-33.34-35).
È il discorso di addio di Gesù ai discepoli, a loro lascia il suo ultimo insegnamento a mo’ di raccomandazione: vogliatevi bene, mettetevi al servizio gli uni degli altri
«Vi do un comandamento nuovo che vi amiate gli uni gli altri»
Quello di Gesù non è un nuovo comandamento che si aggiunge agli altri numerosissimi precetti ebraici. Non si tratta di un fantomatico undicesimo comandamento, ma uno qualitativamente superiore che li sintetizza tutti. Si tratta di un nuovo modo di relazionarsi con Dio.
Dov’è la novità di questo comandamento? Secondo la mentalità teologica dell’epoca, quella di stampo farisaica, la salvezza era possibile all’uomo di fede, nella misura in cui obbediva a un certo numero di dettami e prescrizioni che ne regolavano la vita sociale, religiosa, etica e famigliare. La direttiva di Gesù è completamente innovativa, moralmente rivoluzionaria: l’uomo non si acquista la salvezza obbedendo a delle leggi che gli cadono sul capo, volente o nolente, comprendendole e condividendole o meno, ma amando. Gesù eleva l’amore ad atto salvifico e purificativo. Lo comprende anche l’Apostolo Pietro, esprimendosi con queste parole nella sua prima lettera:
Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati (1Pt 4,8).
Ma è possibile comandare a qualcuno di amare qualcun altro? Si può comandare di servire ma non di amare… o forse no?
La difficoltà di fronte a questa affermazione di Gesù, risiede nella nostra mentalità intrisa di quella corrente culturale del XVIII secolo che è il Romanticismo. Formati da una mentalità secondo la quale l’amore sia qualcosa di tanto puro da essere etereo e quasi spontaneo e istintivo, ci risulta difficile comprendere le parole di Gesù. In realtà l’amore cristiano nulla ha a che vedere col romanticismo o con la spontaneità, ma fonda le sue radici in una virtù teologale, che è la carità, la quale come tutte le altre virtù, impone una sorta di esercizio interiore, uno sforzo quotidiano, faticosissimo.
Non raramente i dieci comandamenti dati da YHWH a Mosè sul monte Sinai, mettono il cristiano medio, quello che non medita sufficientemente su di essi, in una situazione di comodo. Tanto che in molte confessioni il penitente afferma di non doversi accusare di gravi peccati, perché non ha rubato e né ucciso.
Tutto però cambia, quando Gesù afferma il vero senso e valore di quei comandamenti. Essi infatti si illuminano a partire dal nuovo precetto: quello dell’amore. Tutto improvvisamente cambia, o dovrebbe esserlo, almeno fino a quando non cadiamo nel trabocchetto, o nell’autoinganno, secondo il quale ignorare l’altro non sia un peccato contro l’amore, un rifiuto del comandamento di Gesù nel suo testamento spirituale ai discepoli.
L’invito è quello di fare un serio esame di coscienza e chiederci se siamo davvero cristiani degni di questo nome, se siamo in grado di amare non solo amici e famigliari, ma tutta quella schiera di persone che gravitano attorno alla nostra quotidianità: parenti, membri della comunità, ex amici, e così via. L’amore fraterno non può essere messo in secondo piano, quando ci si intende preparare degnamente al Sacramento della Riconciliazione. Lo ripetiamo: il contrario dell’amore non è l’odio, ma ignorare l’altro, fingere che egli non esista più!
Come se già questo non fosse sufficiente per destabilizzarci, Gesù continua con un’ulteriore affermazione non meno problematica:
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
L’amore che ai discepoli viene chiesto è un atto imitativo della vita del Maestro. Gesù non chiede di amare quanto lui ha amato, sicuramente impossibile, ma nella maniera in cui ha amato lui. E come lo ha fatto? Lavando i piedi ai discepoli, Giuda incluso (Cfr. Gv 13,1-15), accogliendo i suoi avversari e morendo anche per loro (vedi approfondimento al link in basso).




Il comando di Gesù, dunque, consiste nell’invito a decentrarci da noi stessi, dai nostri modi imperfetti e limitati, dai nostri gusti ed egoismi, dal desiderio di dare amore per poi riceverne in cambio, e di fare di Dio il centro del nostro mondo e a partire da lui approcciarci agli altri.
L’amore, la carità, l’accoglienza, la riconciliazione non sono per il cristiano un optional, ma un vero e proprio obbligo morale per cui verrà chiesto conto alla fine della sua vita. Come se questo, poi, non fosse sufficiente, Gesù continua con un’ulteriore affermazione non meno problematica:
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri
Su questo versetto è davvero utile fermarsi un attimo per riflettere, per prendere in considerazione cosa significhi per la nostra vita cristiana. Gesù è chiaro, l’amore sortisce una sorta di effetto spartiacque tra chi è veramente un suo discepolo, e chi altro non è che un millantatore.
Solo chi ama, chi è in grado di accogliere il suo prossimo, riconciliarsi con lui, è credibile come uomo, come cristiano. Ancora. Dalla qualità della nostra carità, si stabilisce la qualità della nostra fede. Ben a ragione, l’Apostolo Giacomo nella sua Lettera afferma:
A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta. Al contrario uno potrebbe dire: “Tu hai la fede e io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, e io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”. Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; anche i demòni lo credono e tremano! Insensato, vuoi capire che la fede senza le opere non ha valore? (Gc 2,14-20)
Qui l’Apostolo, cogliendo la provocazione di Gesù sembra dire: “Non sono le tue belle parole a dire l’uomo credente che sei, ma la qualità delle tue relazioni interpersonali”. Abbiamo approfondito questo tema, in diversi articoli a cui rimandiamo per un maggiore approfondimento:


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