IV domenica di Pasqua – anno C
At 13, 14. 43-52; Sal 99; Ap 7, 9. 14-17; Gv 10, 27-30
INTRODUZIONE
La quarta domenica di Pasqua, la Chiesa la dedica alla meditazione del Cristo buon Pastore e tutta la liturgia della Parola cerca di esperire questo tema, affrontandolo da diverse prospettive. Si inizia con la prima lettura, tratta dal libro degli Atti degli Apostoli, per indicare il cammino dei discepoli, ormai rinnovati dalla discesa dello Spirito Santo, che ha permesso loro di cogliere tutto e per intero il messaggio messianico del Cristo. La seconda lettura, invece, è tratta dal libro dell’Apocalisse e ci delinea l’aspetto divino di un Pastore che in realtà è un Agnello che regna in mezzo ai suoi discepoli. Infine la meditazione evangelica è affidata ad appena tre versetti tratti dal Vangelo secondo Giovanni, in cui Gesù, apertamente, si rivela come il buon Pastore, quello vero, quello che non fa i suoi interessi, ma quello del gregge a lui affidato.
Mentre, dunque, ci apprestiamo ad approfondire la Liturgia della Parola di questa quarta domenica di Pasqua, invitiamo anche alla lettura di un nostro precedente approfondimento, per avere una visione più completa del tema:

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Prima lettura
Dal libro degli Atti degli Apostoli (At 13, 14. 43-52)
In quei giorni, Paolo e Bàrnaba, proseguendo da Perge, arrivarono ad Antiòchia in Pisìdia, e, entrati nella sinagoga nel giorno di sabato, sedettero.
Molti Giudei e prosèliti credenti in Dio seguirono Paolo e Bàrnaba ed essi, intrattenendosi con loro, cercavano di persuaderli a perseverare nella grazia di Dio.
Il sabato seguente quasi tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore. Quando videro quella moltitudine, i Giudei furono ricolmi di gelosia e con parole ingiuriose contrastavano le affermazioni di Paolo. Allora Paolo e Bàrnaba con franchezza dichiararono: «Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”».
Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione. Ma i Giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Bàrnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio. I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
La strada dei discepoli non è stata tutta spianata, al contrario. Il Vangelo di Gesù Cristo, il messaggio di una salvezza universale, trova resistenza negli uditori. Il brano infatti rivela le difficoltà dei discepoli durante il loro annuncio. Essi devono fare i conti non solo con il rifiuto dei Giudei, primi destinatari del Vangelo, ma anche con «le pie donne della nobiltà e i notabili della città» che si rivoltano contro di loro con fare violento.
Tuttavia di fronte a questo fallimento, del tutto inatteso, di fronte a questa durezza di cuore e alla violenza di modi di chi intende mettere alla gogna il “gregge” di Cristo, emerge una nuova strada tutta nuova, ancora da battere, indice di un cammino faticoso, ma che porterà buoni frutti: il Vangelo sarà predicato alle nazioni pagane.
È interessante, infatti, l’annotazione conclusiva di questa narrazione:
I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo.
Benché abbiano incontrato resistenza e rifiuto, benché gli inizi della predicazione apostolica sia segnata dal fallimento, niente e nessuno ruberà la gioia del cuore di quegli uomini ripieni di Spirito Santo e di entusiasmo nell’annunciare la parola di salvezza.
Il fallimento fa parte della vita del cristiano: egli non deve andare alla ricerca di consensi: Gesù non lo ha fatto, anzi ha pagato con la vita, il prezzo dei suoi valori. In un’epoca in cui conta chi produce profitto, chi cresce in popolarità, chi raccoglie più consensi; gli Apostoli invitano a rimanere fedeli ai propri valori, al proprio credo, alla propria vocazione battesimale, anche se questo comporta essere rifiutati, cacciati, perseguitati, incompresi. Dopotutto, alla fine della nostra vita, non saranno gli applausi o i like sui social networks a salvarci, ma la nostra capacità di aver speso la nostra vita nell’amore, anche se comportava essere impopolari o perseguitati.
La gioia degli apostoli, è imperitura, imperturbabile, stabile, inamovibile, perché hanno scelto come pastore quello Spirito Santo, il Consolatore donatore di pace (vedi approfondimento in basso), che li guida e li sostiene nel loro cammino. Hanno trovato il segreto della loro felicità e non se lo lasceranno sfuggire.

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Salmo responsoriale
Dal Salmo 99
Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.
Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione.
Il popolo di Israele si è sempre riconosciuto come un gregge guidato amorosamente da un Pastore divino. Lo ha fisicamente sperimentato durante gli anni dell’esodo, quelli passati nel deserto, mentre YHWH, liberandolo dalla schiavitù egizia, lo formava come comunità (dando loro le tavole della legge sul monte Sinai, e rivelando la sua volontà e provvidenza tramite Mosè e Aronne). Lungo quegli anni difficili, Israele ha fatto esperienza della pazienza di Dio che non lo ha mai abbandonato nonostante i suoi gravi peccati.
Questa è la bontà di Dio, che si rivela nella sua pazienza e misericordia, ma anche nella sua tenerezza e Provvidenza, a cui il Salmista invita tutti noi a inneggiare.
Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 10, 27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
CONTESTO
Il brano evangelico scelto per questa domenica, si situa all’interno di un contesto narrativo di polemica, in cui i farisei contestano la guarigione operata da Gesù nei confronti di un cieco nato (Cfr. Gv 9).
Tutti gli evangelisti riportano gli scontri di Gesù con i suoi avversari provenienti dal mondo religioso. In questo caso, risulta particolarmente evocativo come, nel Vangelo secondo Luca, Gesù descrive i farisei come ciechi che hanno la pretesa di guidare altri non vedenti.
Disse loro anche una parabola: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? (Lc 6,39)

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«LE MIE PECORE ASCOLTANO LA MIA VOCE»
Il verbo ascoltare non è un semplice sentire superficiale, ma fare in modo che la parola udita non resti in superficie, scivolando via, ma raggiunga il cuore e lì venga meditata, fatta crescere, e quindi applicata alla propria vita.
L’ascolto, all’interno di un discorso e di un cammino di fede, è così importante che per San Paolo, da esso nasce la fede:
Dunque, la fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo (Rm 10,17).
Ma non solo. Dall’ascolto nasce quella docilità tipicamente cristiana che è l’obbedienza a Dio e ai suoi pastori. La parola italiana, proviene dal latino ob-audire, dove il suffisso ob indica il mettere dinanzi. Cosa? L’ audire, cioè l’ascolto.
Per Gesù, quindi, il primo tratto distintivo di un discepolo che intenda far parte del suo gregge, e sceglierlo come Pastore, è proprio l’ascolto docile e mite.
Ci troviamo, ancora una volta, di fronte a una forte provocazione che ci riguarda come cristiani del III millennio. L’invito è quello di saperci decentrare, lasciare spazio all’Altro e agli altri, riconoscere che siamo davvero importanti non quando seguiamo la tentazione di emergere e sentirci migliori degli altri, quando pensiamo di aver dato la nostra migliore prestazione, ma quando ci riconosciamo comunità, gruppo, membri di un popolo più grande, perché Dio non ci salverà mai come individui singoli e autosufficienti.
A livello spirituale, poi, sorge un’ulteriore provocazione. Essere cristiani capaci di ascolto, implica una seria revisione della nostra preghiera. Chi ascolta, lo fa in silenzio! L’invito è quello di saper mettere a tacere la nostra mente e la nostra lingua, di saper stare in ascolto di Dio attraverso la meditazione della Parola di Dio, o quello che intende dirci attraverso gli eventi concreti della nostra quotidianità.
«E IO LE CONOSCO»
Il verbo conoscere nella Bibbia non indica un apprendimento concettuale, ma un entrare in una profonda relazione di comunione con l’altro. Tant’è che nella Bibbia si dice che quando i coniugi si uniscono nel talamo nuziale, essi si conoscono. Così con questa affermazione Gesù ci dice che tipo di relazione di intimità vuole avere con noi, da diventare tutt’uno con noi.
Ma chi conosce Gesù? Con chi ha questa relazione di intimità? Solo con coloro che lo ascoltano, diversamente si finisce per avere con lui una sorta di relazione tossica, come quella dei coniugi che vivono come da separati in casa.
Il rischio è molto attuale, perché molti cristiani vivono così. Fanno delle loro preghiere un lungo soliloquio dal quale la voce di Dio è esclusa, non pervenuta perché non gli viene concesso (per un approfondimento sulla preghiera del cristiano, rimandiamo ai link in basso).





«ED ESSE MI SEGUONO»
Solo a partire dall’ascolto che implica intimità con Cristo, è possibile la sequela. Senza ascolto non c’è nulla, non c’è vita spirituale e nemmeno cristiana.
Ma non solo. Il gregge diventa tale solo nella misura in cui ascolta, e quindi obbedisce, si fida, perché “conosce”, e quindi diventa capace di lasciare la sicurezza dei recinti, per lasciarsi condurre dove solo il pastore sa. Il gregge non sta lì a sindacare se il cammino e lungo o se l’erba sia più o meno di suo gradimento: gli basta solo stare col suo pastore.
La provocazione che ci viene offerta da questa sequela è questa: un discepolo è tale, solo se si riconosce appartenente a un gregge, a una comunità. Il pastore non chiama le pecore singolarmente, ma il richiamo è per tutte.
QUANDO DIVENTIAMO PREZIOSI AGLI OCCHI DI CRISTO?
I versetti che seguono, sono davvero sorprendenti, perché mettono a nudo i sentimenti di Gesù nei riguardi di chiunque, decidendo di farsi suo discepolo, decide di accogliere le sue condizioni. Rileggiamo:
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Cos’è che fonda questa relazione affettiva tanto forte con Cristo? Il fatto che lui conosca le sue pecore, sia entrato in una relazione di profonda intimità con loro. L’ascolto, il conoscersi, la sequela, creano una sorta di vincolo inscindibile con lui e con il Padre.
La vita eterna, poi, che Gesù garantisce ai suoi discepoli, non è una promessa a lunga scadenza, che riguarda un futuro ipotetico o che ci coinvolgerà alla fine dei nostri giorni. Tutt’altro. Il verbo usato da Gesù non è al futuro, ma al presente. Riguarda l’oggi del cristiano. Si tratta di un invito a vivere da risorti già qui e ora, possibile nella misura in cui, appunto, si vive strettamente unito a lui.
Ma non solo. C’è un’affermazione di Gesù in questi pochi versetti, che non possono passare inosservati, perché rivelano quello che siamo noi per lui:
Il Padre mio, che me le ha date
Siamo un regalo! Tutti, nessuno escluso. Siamo il dono del Padre per il Figlio e questi l’accoglie come qualcosa di particolarmente prezioso, che va custodito con cura e amore. Condizione per riconoscerci un dono per Cristo è nella misura in cui lo rendiamo fiero attraverso il nostro comportamento qui ed ora, nella ferialità della nostra esistenza, nel modo in cui sediamo tra i banchi di una chiesa (vedi link in basso)

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PERCHÈ GESÙ SCEGLIE PROPRIO IL SIMBOLO DELLE PECORE?
Diciamolo, tra tutti gli animali voluti dal Creatore, le pecore non sono tra le più belle, non spiccano per la loro intelligenza, e neanche si possono dire che siano animali da compagnia. Perché l’antico popolo di Israele si è definito con questo animale e Gesù, poi, ne ha accolto la simbologia per definire la nuova comunità di credenti? Perché non ha scelto qualche animale più nobile, un fiero leone o una nobile aquila?
In realtà all’epoca di Gesù, la pecora era tutt’altro che un animale poco nobile. Poiché per prescrizione israelitica i maiali erano ritenuti animali impuri, le pecore sortivano il loro corrispettivo: di esse non si buttava via proprio niente: dalla lana al latte, dalla carne – la più pregiate per i sacrifici rituali dell’epoca – alle pelli, per le pergamene su cui scrivere, tutto era prezioso per la vita dell’uomo dell’epoca.
Ma non solo. Tra tutti i mammiferi creati da Dio, la pecora è il solo animale che non può vivere allo stato brado. Lasciata libera, la pecora non è autosufficiente: non è in grado di procacciarsi il cibo da sola, e men che meno è in grado di difendersi dagli attacchi dei predatori. Per sussistere, ha bisogno di un pastore, senza del quale la sua fine è davvero parecchio vicina. Da questa prospettiva, si può comprendere, l’urgenza di quel pastore, secondo la parabola di Gesù, che in tutta fretta lascia le novantanove per andare in cerca della pecorella smarrita (Cfr. Lc 15,4-7; approfondisci al link in basso), ma anche il motivo per cui Giovanni Battista, al termine della sua missione, definisce Gesù come l’Agnello di Dio (Cfr. Gv 1,29-34; approfondisci al link in basso).


Fame della Parola di Dio?
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