V domenica del tempo ordinario – anno C
Is 43,16-21; Sal 125; Fil 3,8-14; Gv 8,1-11
CONTESTO
La liturgia della Parola di questa domenica, va un po’ considerata come la risposta a quanto proclamato la scorsa settimana. Lì dove venivamo esortati a lasciarci riconciliare con Cristo (vedi link in basso), ecco che ora ne viene spiegato il motivo: convertirsi non per paura di ritorsioni malevole di Dio Padre, ma in quanto il peccato è, alla fine, un atto autolesionista. Sotto le mentite spoglie di un bene facilmente raggiungibile, alla fine si rivela come il più amaro dei frutti.

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Dopotutto, come abbiamo avuto modo di approfondire, Dio si comporta con noi peccatori, come il padre della parabola del figliol prodigo: sull’uscio della porta, pronto ad accoglierci, a venire incontro a noi, dimezzando le distanze, e senza sentenziare o criticare, da subito ci riveste dell’abito bello (proprio di quella dignità perduta col peccato) e ci ammette nella sua casa, dove sarà festa.
Prima lettura
Dal libro del profeta Isaia (Is 43,16-21)
Così dice il Signore,
che aprì una strada nel mare
e un sentiero in mezzo ad acque possenti,
che fece uscire carri e cavalli,
esercito ed eroi a un tempo;
essi giacciono morti, mai più si rialzeranno,
si spensero come un lucignolo, sono estinti:
«Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
Aprirò anche nel deserto una strada,
immetterò fiumi nella steppa.
Mi glorificheranno le bestie selvatiche,
sciacalli e struzzi,
perché avrò fornito acqua al deserto,
fiumi alla steppa,
per dissetare il mio popolo, il mio eletto.
Il popolo che io ho plasmato per me
celebrerà le mie lodi».
Come abbiamo avuto modo di vedere nei precedenti articoli, il profeta Isaia parla per mezzo di Dio al popolo di Israele, mentre questo è deportato all’interno del territorio dell’impero babilonese. Costretto a vivere in stato di semi schiavitù in una terra pagana. Il pensiero degli israeliti, ovviamente, era alla terra che furono costretti a lasciare, quella che secondo la tradizione biblica era stata donata direttamente da Dio agli avi, quando furono liberati dalla schiavitù d’Egitto. In terra babilonese, poi, agli israeliti era negata la propria dignità, cultura e identità, per questo vivevano oltremodo uno stato di particolare scoraggiamento. Per questo il profeta Isaia sorge tra il popolo di Israele come, potremmo dire, il cantore dell’amor divino per il suo popolo prostrato e sofferente. Dopotutto, abbiamo affrontato questo argomento in uno dei nostri precedenti articoli, quando abbiamo affermato:
«Israele sta vivendo il dramma della deportazione in Babilonia, frutto di una politica che ha voluto restare sorda alle esortazioni di Dio per mezzo del profeta (YHWH, infatti, attraverso il profeta Geremia, invitava Israele a non scendere in guerra contro il potente impero babilonese, ad accettare un accordo).
Se da un lato il popolo, nella sua presunzione e nel suo orgoglio, è voluto rimanere sordo alle parole di Dio, voltandogli le spalle, questi però non cessa di amarlo e di beneficarlo. Da qui, dunque, una dichiarazione d’amore e una promessa di liberazione, che risultano quanto mai immeritate.
Israele, quindi, farà esperienza di come non solo Dio non è il giudice punitore, ma il salvatore e il liberatore che ama senza condizionamenti dello stato morale dell’altro» (Perché Maria viene chiamata “donna” da Gesù e non “mamma”?)

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La cosa che non dobbiamo dimenticare, è che Israele si trova prigioniero in Babilonia non solo perché ha perso la guerra contro un nemico troppo superiore, ma perché non aveva voluto dare ascolto a Dio che parlava per mezzo del profeta Geremia, il quale invitava a non ingaggiare una guerra con quella superpotenza (approfondisci cliccando sul link in basso).

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Il titolo di questo paragrafo proviene dall’affermazione dell’angelo Gabriele alla Vergine Maria quando questa, chiede spiegazione circa la sua missione di madre del Signore, non “conoscendo” uomo. Le parole dell’angelo, tuttavia, ben si abbiano al brano del profeta Isaia di questa domenica, dove Dio cerca di consolare il cuore del popolo scoraggiato e afferma:
Non ricordate più le cose passate,
non pensate più alle cose antiche!
Ecco, io faccio una cosa nuova
Di fronte a una situazione così tragica, Israele si sente a un vicolo cieco, con le spalle al muro e senza la possibilità di una via di uscita. La deportazione a Babilonia viene riletta come la morte di tutta la nazione, la fine di una storia, della ricchezza della cultura e dell’identità di un popolo che ha sciupato la sua elezione divina. Da lì, pensavano, non ne sarebbero usciti perché l’importo babilonese, che avevano sottostimato, è troppo grande e superbo per permettere loro di tornare nel loro paese e ricostituirsi come popolo. Davanti agli occhi degli israeliti non c’era che una sola cosa da fare: morire come popolo, per assimilarsi alla cultura e alla storia di Babilonia.
Contro questo grave stato di scoraggiamento del popolo che rivede con rimpianto e nostalgia il suo fiorente passato, e la grave colpa di non aver dato ascolto a Dio al momento, giusto, ecco che il Signore interviene e invita a non guardare al passato, ma a quel rinnovamento che Egli, prodigiosamente permetterà.
Implicazioni per la nostra vita spirituale
Non raramente anche noi come gli israeliti di un tempo, possiamo sentirci sopraffatti per il ricordo dei nostri grandi e gravi peccati, ed essere persino tentati che l’unica cosa giusta che Dio debba fare è dimenticarsi di noi perché giustamente lo abbiamo deluso, tradito, disobbedito. Il problema è che Dio, sempre, è più grande del nostro peccato. Lui riesce, per fortuna, ad andare oltre i nostri limiti e le nostre fragilità, per innamorarsi perdutamente della nostra bellezza, per quanto questa talvolta la nascondiamo in un angolino recondito della nostra anima (vedi link in basso).

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Il nostro non è un Dio del rimpianto, ma quello entusiasta e propositivo che ci invita a riprovarci, a non arrenderci alle nostre miserie, a rimetterci n gioco con lui che ci ama e non riesce a non restare innamorato del bene che riusciamo a fare, dare e a vivere.
Questo sguardo benevolo di Dio su di noi, se da un lato ci ridona nuova fiducia sulla nostra vita, dall’altro non può non provocarci a fare lo stesso con i nostri fratelli. Dopotutto se Cristo vide persino in Giuda il traditore, qualcosa di buono per cui valesse la pena puntare e rischiare, non dovremmo fare anche noi con quel prossimo che non fa altro che darci dispiaceri?

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Preso da questo impeto amoroso verso il popolo sofferente, Dio rivela anche che Israele non deve attendere un tempo ipotetico e lontano per vedere l’intervento divino. Afferma infatti:
proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?
La Parola pronunciata da Dio è sempre attuale ed efficace, non riguarda mai un futuro più o meno remoto, ma è si realizza già nel momento in cui viene pronunciata. Non è un caso che in ebraico il termine “dabar“, “parola“, significhi “parola e fatto“.
L’invito, dunque, che YHWH fa a Israele è non solo quello di non scoraggiarsi, perché questa non è la sua fine, ma anche a non ritenere la situazione che sta vivendo come una punizione divina, quanto piuttosto il risultato delle sue azioni scellerate, proprie di una politica miope e superba. Ma non solo. L’invito è quello di riconoscere che nonostante il popolo si sia reso sordo alle parole di Dio, questo non lo abbandona a se stesso, al contrario già si è attivato in suo favore.
Infatti, qualche tempo dopo sorgerà un nuovo re a Babilonia, Ciro, il quale senza delle vere e proprie motivazioni, permetterà a Israele di ritornare alla sua terra e ricostituirsi come popolo.
Dio in un germoglio
L’esperienza di Israele, ancora una volta, chiama in causa la nostra coscienza a una presa di posizione. Le parole di Dio rivelate al popolo, valgono anche per noi. Non raramente, infatti, ci sono situazioni nella vita che ci fanno sembrare con le spalle al muro. Tutto ci sembra troppo pesante e siamo persino tentati di credere di essere stati dimenticati a Dio a motivo delle nostre colpe.
Il brano di Isaia di questa domenica sfata questo modo di pensare, fasullo di ispirazione diabolica, rivelandoci il volto di un Dio innamorato di noi, compassionevole e pronto a intervenire a nostro favore. La sua azione non si lascia attendere, ma va comunque cercata all’interno delle pieghe della nostra quotidianità, perché fiorisce come un germoglio, apportatore di eterna novità, esperienza vitale che, nella sua fragilità, riesce a bucare il terreno più duro.
L’invito, resta sempre lo stesso: avere uno sguardo contemplativo capace di riconoscere l’agire di Dio nella piccolezza della nostra vita (vedi approfondimento al link in basso).

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Il Salmo responsoriale che oggi viene proclamato, poi, è proprio l’inno degli israeliti quando furono liberati dalla deportazione in Babilonia: Dio aveva mantenuto le sue promesse, per questo viene osannato come il credibile, il fedele.
Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (Gv 8,1-11)
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani.
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».
Contesto
A livello tematico, il brano evangelico che la Chiesa ha scelto per questa V domenica di quaresima, segue appunto quello della prima lettura: la presentazione di un Dio che non giudica il peccato dell’uomo, né tantomeno punisce le sue mancanze.
Chi ha avuto modo di approfondire i brani evangelici offerti in questa settimana dalla Liturgia della Parola, si sarà reso conto come dalla meditazione del Vangelo secondo Giovanni, il ministero pubblico di Gesù, inizi sotto il segno del rifiuto: con il peso di una condanna di morte che gli piomba addosso dai suoi avversari, già al solo essersi proclamato Figlio di un Dio che è Padre.
All’interno di questo contesto polemico, ma potremmo anche dire persecutorio, visto che gli avversari di Gesù lo seguono dappertutto e non smettono di trovare l’occasione di arrestarlo e farla finita con lui, si situa la narrazione di questa domenica: il giudizio su una donna sorpresa in adulterio.
La prima cosa che risalta è che gli avversari di Gesù portino la sola donna peccatrice e non il suo amante, come se il peccato riguardasse soltanto lei. Riteniamo interessante la svolta interpretativa che Gesù dà a questo precetto morale, ritenendo ugualmente colpevoli l’uomo e la donna nel compiere questo grave peccato. Leggiamo infatti nel Vangelo secondo Matteo:
Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio (Mt 5,27-28.31-32).
Gesù non solo sottolinea la gravità di questo peccato che lede la santità della sessualità coniugale, ma non cede all’ipocrisia di quei benpensanti che si ritenevano esenti da ogni peccato, celandosi dietro la consuetudine di un maschilismo vigliacco.
Il trabocchetto degli scribi e dei farisei
Scribi e farisei che già architettavano la morte del Nazareno, non gli approcciano per avere da lui un insegnamento morale sulla legge di Mosè e i precetti morali. Infatti, il loro stesso intento è finalizzato a trovare un’occasione per poter arrestare apertamente Gesù senza essere linciati da quella folla che lo aveva riconosciuto come Messia, ne ascoltava volentieri gli insegnamenti e lo seguiva ovunque andasse.
A ben vedere, infatti, l’evangelista annota che gli avversari di Gesù gli si approssimano subito dopo aver insegnato, quando è ancora attorniato dalla moltitudine di discepoli e simpatizzanti. Abbiamo infatti letto:
In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
Su cosa verte il trabocchetto degli scribi e dei farisei? Sul far leva sulla sua credibilità di oratore o sulla possibilità di accusarlo come ribelle. Se, infatti, Gesù che aveva proclamato con trasporto il volto misericordioso del Padre, avesse appoggiato la condanna della donna, allora sarebbe caduta tutta la credibilità del suo proporsi come seconda opportunità per tutti i peccatori che volessero tornare a Dio. Al contrario, se non avesse riconosciuto la donna come rea di morte, allora si sarebbe posto contro la Legge di Mosè e quindi avrebbero potuto presto condannarlo per ribelle.
«Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei»
Gesù non ha mai ceduto ai ricatti psicologici dei farisei, al contrario è sempre riuscito a destabilizzare i loro loschi ragionamenti, i loro complotti e la loro grande ipocrisia. Emblematiche sono le sue parole rivolte ai discepoli circa l’atteggiamento di scribi e farisei, quando afferma come sulla cattedra di Mosè, a insegnare al suo posto, si sia seduti non coloro che sono veri mediatori della volontà divina, ma uomini loschi che impongono ad altri fardelli che non spostano nemmeno con un dito (Cfr. Mt 23,1-12; vedi articolo al link in basso).

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Come comportarci di fronte all’ipocrisia?
Con la sua risposta, Gesù esce dalla logica perversa nella quale i suoi avversari vogliono ingabbiare il suo pensiero morale, ma allo stesso tempo impone loro una presa di coscienza: il non essere migliore di quella donna che hanno esposto al pubblico ludibrio.
In maniera paradossale, l’atteggiamento di Gesù rivela il volto di un Dio che si prende cura del benessere e della dignità anche di chi ha commesso un peccato tanto grave come l’adulterio. «Dio è amore» (1Gv 4,8), come ben dice l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera, e non può non amare… compreso colui che lo rifiuta, lo abbandona o lo tradisce.
Ripercussioni per la nostra vita
Non raramente, purtroppo, la nostra vita è proprio come quella dei farisei: viviamo la nostra fede, non come un’opportunità di incontro con Dio, ma come occasione per giudicare gli altri, per sentirci superiori del nostro prossimo, per star lì a sentenziare sui suoi minimi difetti: dal modo in cui si veste o si comporta in chiesa, a tutta la sua vita intima e famigliare. Oggi come allora Gesù non fa che invitarci all’umiltà, alla pacatezza di un silenzio interiore ed esteriore, che instaura la giustizia nelle nostre relazioni. Memorabili restano le sue parole, così come raccolte dall’evangelista Luca (a cui rimandiamo per un approfondimento al link in basso):
Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello (Lc 6,41-42)

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Ricordiamo che l’unico senza peccato che avrebbe potuto tirare la prima pietra, per la lapidazione della donna adultera, era proprio Gesù… e non lo fece.
L’invito che sorge per noi, prima di quello di non giudicare e non vivere da farisei, è quello di vivere nella consapevolezza di essere peccatori, necessitanti, in primis, della misericordia di Dio. E anche qualora la coscienza non avesse nulla da rimproverarci, questo non ci mette nella situazione di poter sentenziare sulla vita del prossimo, per quanto il suo peccato possa essere pubblico.
«Donna, dove sono?»
Il dialogo che segue tra Gesù e l’adultera è molto interessante, non solo per quello che abbiamo appena detto: Cristo non sentenzia sulla sua vita, non la colpisce né la condanna, ma la chiama “donna”. Per lui colei che ha dinanzi non è un’adultera, una peccatrice pubblica, ma una donna. Si evidenzia ancora una volta come agli occhi di Dio, la persona umana valga più del suo peccato.
Lei stessa, poi, spingendo lo sguardo sul volto del Maestro, lo chiama “kyrie“, cioè Signore. Un termine non casuale perché indica la natura divina del Nazareno. Lì dove Gesù riconosce la donna non appellandola per il suo peccato, l’adultera stessa lo riconosce come quel vero Figlio di Dio non sempre riconosciuto dagli uomini nel Vangelo di San Giovanni.
Cosa significa questo per noi? Questo ha almeno due implicazioni. La prima è che Gesù rivela all’uomo la sua vera identità, la seconda è che dall’esperienza della misericordia del Padre, è possibile fare una maggiore e crescente esperienza di Cristo.
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