Le due vie del cristiano. Come fare le scelte giuste, secondo Dio?

VI domenica del tempo ordinario – anno C

Ger 17,5-8; Sal 1; 1 Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26

INTRODUZIONE
La liturgia della Parola di questa domenica, ci offre davvero degli spunti interessanti per la nostra vita cristiana, soprattutto nella misura in cui, prendendo sul serio il nostro Battesimo, decidiamo davvero di essere quello che Dio si aspetta da noi: suoi collaboratori nell’opera redentrice della Chiesa.

Illuminati, in particolar modo, dalla prima lettura e dal brano evangelico, vedremo come le scelte del cristiano non sono poi di così difficile discernimento. Non ci si trova dinanzi a una moltitudini di opzioni tra quali individuare quella santa e buona, ma sostanzialmente siano due: una giusta e una sbagliata, una che porta alla benedizione e una alla maledizione.
Si tratterà, però, di avere il coraggio di fermarsi prima di intraprendere una decisione importante per la nostra vita, porsi alla presenza della Trinità, lasciarsi invadere dal loro amore e dal discernimento dello Spirito Santo, interrogare il Padre circa la scelta evangelica, e allora tutto diverrà chiaro.

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Il problema, però, è che in questa nostra epoca iperconnessa e iperedonistica, dove il piacere e la realizzazione del singolo si ha la pretesa di renderli centri gravitazionali dell’intero universo, un discernimento vero che imponga un decentramento personale per lasciare spazio all’Altro e agli altri, non è semplice. Se poi ci si aggiunge la difficoltà che ormai il tempo è un bene prezioso e non è mai sufficiente per renderci superefficienti come il mondo pretende, allora ecco che quella sfera spirituale e religiosa che tanto bene ci farebbe, viene accantonata. E da qui, anche il discernimento necessario per fare le scelte giuste al momento giusto.

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Prima lettura
Dal libro del profeta Geremia (Ger 17,5-8)

Così dice il Signore:
«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno,
allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamarisco nella steppa;
non vedrà venire il bene,
dimorerà in luoghi aridi nel deserto,
in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere.
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia.
È come un albero piantato lungo un corso d’acqua,
verso la corrente stende le radici;
non teme quando viene il caldo,
le sue foglie rimangono verdi,
nell’anno della siccità non si dà pena,
non smette di produrre frutti».

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Per mezzo del profeta Geremia, il Signore si rivela a Israele, prossimo a un passo dal vivere il peggior incubo della sua storia comunitaria, la sconfitta contro l’impero babilonese e la successiva deportazione, che la politica nazionale che stanno portando avanti è autodistruttiva in quanto unicamente fondata sull’orgoglio umano: quello di sentirsi onnipotenti e capaci di eliminare la super potenza dell’epoca. Da qui, dunque, l’invito a confidare non nella politica del re e dei suoi consiglieri, ma a adottare una strategia completamente diversa, la quale necessiterebbe, in primis, l’ascolto della Parola di Dio, quello che ha da dire per il loro bene.
In realtà, sappiamo bene, che l’annuncio di Geremia non sarà accolto, tanto che subirà la violenta persecuzione dei suoi connazionali. Tuttavia era necessario che di fronte a un paese allo sbando, la voce di Dio, come ultimo rimedio al degrado morale, intellettuale e politico di Israele, si sentisse. Sarà, tuttavia, una lezione che gli israeliti dovranno comprendere a caro prezzo, anche se c’è da dire che Dio non li abbandonerà al loro destino.

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AUTORI DEL NOSTRO DESTINO
Le parole del profeta, risultano particolarmente attuali per la nostra vita cristiana. Esse ci rivelano che tutti siamo nati per la salvezza, ma che poi saranno le nostre azioni a decretare se ne siamo degni oppure no.
Cosa ci causa salvezza o dannazione? L’attaccamento del cuore! Fare dell’altro l’unica ragione della nostra vita, un idolo dal quale dipendere, è la maniera più malsana di vivere una relazione. E questo avviene in molti ambiti: pensiamo a dei genitori troppo apprensivi nei riguardi dei loro figli, o di due innamorati che rendono tossica la loro relazione al punto da dipendere l’uno dall’altro, fino al punto di accettare per sé scelte inconsulte. Cade anche in questo trabocchetto chi desidera compiacere l’altro a tutti costi, essere riconosciuto e apprezzato incondizionatamente. Insomma, ogni volta in cui facciamo dell’altro il centro della nostra vita, ci avviciniamo pericolosamente alla maledizione divina:

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Maledetto l’uomo che confida nell’uomo

Di certo non è Dio quello che maledice, ma è l’uomo che si incammina per sentieri tortuosi e pericolosi, perché l’altro per quanto amato, resta sempre una persona fragile, limitata. Per quanto amore potremmo donare nelle nostre relazioni (coniugali, affettive, amicali, parentali), nessuno ci potrà assicurare che l’altro non tradisca la nostra fiducia o ci ami con la stessa intensità.
Cos’è allora la maledizione? L’autocondannarsi all’infelicità, togliere Dio, l’unico fautore della nostra gioia, l’unico capace di amarci come meriteremmo, e divinizzare l’altro, intronizzarlo sullo scranno dell’onnipotenza colui che non potrà mai esserlo.
È interessante che felicità o tristezza sono delineati dal profeta, con la metafora della fertilità di un albero: il primo nell’aridità della steppa, condannato alla solitudine, il secondo lungo un corso d’acqua resta sempre giovane, sempre verde. Il primo condannato all’arsura di un bene che non arriva, il secondo placido non teme nulla perché ha Dio con sé.
Anche Gesù ha affrontato l’intima tentazione dell’uomo di fare dei suoi affetti il centro dell’universo, e in un suo insegnamento afferma:

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Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me (Mt 10,37).

Perché ci viene chiesta questa radicalità dell’amor divino? Il motivo è facile: solo nella misura in cui sappiamo mettere Dio al centro della nostra vita e ne riconosciamo la sua più intima identità – «Dio è amore» (1Gv 4,8) – allora potremo davvero amare come si deve il nostro prossimo. Da lui impariamo che l’amore è tale solo se lascia libero l’altro di corrispondere o rifiutare, di accogliere o tradire, di restare o andare via. Questo perché l’amore o è libero e liberante, o è davvero gratuito senza pretendere nulla in cambio, oppure non è amore, è idolatria e questa non ci renderà mai felici, perché non verremo mai amati dagli altri come vorremmo: fossero il fidanzato, la moglie, i figli o gli amici.

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Luca (Lc 6,17.20-26)

In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti».

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Ci troviamo di fronte alle beatitudini secondo l’evangelista Luca. Queste, a differenza di Matteo (vedi link in basso), sono accompagnate da una serie di avvertenze che mettono in guardia chi non intende viverle.

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Anche in questo caso, Gesù indica che per la salvezza non c’è che una sola via. Non lascia spazio a dubbi, tentennamenti o compromessi. Beatitudini e guai, come vedremo, sono profondamente connessi, come due facce di una stessa medaglia.

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CHI SARANNO SALVATI E CHI DANNATI?
Gesù chiama beati, e quindi capaci di salvezza eterna, coloro che stanno affrontando gravi problemi nella loro vita: per povertà, mancanza di cibo o afflizione. Sembra davvero un controsenso. Sembra che dica che a salvarsi, a ottenere un posto nel regno dei cieli, a godere della gioia eterna saranno i perdenti. Perché? Il motivo va trovato in quei “guai”, in coloro, cioè, che sono causa di sofferenza della prima classe di persone individuate da Gesù.
Sui ricchi, i sazi e i gaudenti, pende la pesante parola della dannazione. Perché? Perché la loro sazietà e ricchezza, la loro capacità di godersi la vita, viene pagata sulle spalle di coloro che non hanno nulla. Quanti imprenditori si arricchiscono sfruttando i dipendenti? Quante persone per bene sono tali, perché hanno lucrato a spese di qualcun altro? Ma non solo. Per la mentalità cristiana il più del ricco, per giustizia e non per generosità, è del povero, gli appartiene per diritto. Lo spiega Gesù nella parabola di Lazzaro e del ricco epulone:

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C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”” (Lc 16,19-31).

Se da un lato, dunque, i poveri vengono salvati perché si fidano di Dio ed egli si prende cura di loro, quando avrebbero dovuto farlo altri, i ricchi invece vengono maledetti perché hanno fatto della loro vita terrena il tutto, assolutizzando il momento presente, i beni e godimenti del mondo, alla faccia di chi era nella sofferenza ed eliminando Dio dalla loro vita.

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NON SI PUÒ PIACERE A TUTTI, FACCIAMONE UNA RAGIONE
L’ultima avvertenza di Gesù è quanto mai evocativa ed è interessante approfondirla:

Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi.

Spesso per noi è davvero importante che gli altri ci sostengano, plaudano ai nostri successi. Eppure non si può vivere di soli applausi. Ritengo che sia davvero triste la vita di tanti volti della televisione e della politica che cercano consensi a tutti i costi. Per farlo, devono cercare di barattare i propri valori, le proprie idee, le proprie ambizioni. Per il consenso degli altri, svendono la propria persona, si sviliscono, si svuotano completamente. E a tanti basta solo questo: giusto qualche minuto di passaggio televisivo. A cosa ci si riduce.
Anche per loro vale il “guai” di Gesù. Non si può vivere della propria immagine. Superficiali al punto tale di dire tutto e il contrario di tutto pur di emergere. E quanti cristiani nelle nostre comunità vivono di maschere: ne hanno una per tutte le occasioni.
Con l’affermazione seguente Gesù spiega perché chi è in cerca di visibilità dovrebbe temere:

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Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti

Cosa significa? Significa che coloro che vanno in cerca di visibilità, di applausi e riconoscimenti da parte di tutti, diventano la caricatura di loro stessi. Il riferimento è sempre alla storia del profeta Geremia, lì dove il falso profeta Anania diceva alla gente quello che voleva ascoltare. Accoglieva plausi e consensi, ma portò il popolo all’autodistruzione. Leggiamo:

Allora il profeta Geremia disse al profeta Anania: “Ascolta, Anania! Il Signore non ti ha mandato e tu induci questo popolo a confidare nella menzogna; perciò dice il Signore: Ecco, ti faccio sparire dalla faccia della terra; quest’anno tu morirai, perché hai predicato la ribellione al Signore”. In quello stesso anno, nel settimo mese, il profeta Anania morì (Ger 28,15-17).

Lo ripetiamo ancora una volta: predicare se stessi, promuovere la propria persona come se fosse l’ultimo film di un attore o il disco di un cantante, non conduce che alla morte, a quello che è il destino degli animali ai quali ci si riduce.

CONCLUSIONE
Viviamo in un’epoca strana: quella dove la realizzazione personale del singolo, il suo divertimento, i suoi piaceri vengono assolutizzati a valori morali. In un’epoca così ingannevole da indurci a pensare che potremo rimanere giovani sempre, che alla fine anche se il corpo cede il passo al tempo, basta essere giovani dentro e poi qualche punturina, e qualche stiratina non farebbero così male. Viviamo in un’epoca dove la vecchiaia è un tabù e non più frutto della grazia divina, dove i malati e i disabili scandalizzano con la loro fragilità, perché rinfacciano la verità che non saremo mai perfetti. Ma ci siamo mai chiesti che senso avrebbe una vita da perenni Peter Pan? Una vita di soli godimenti? Davvero il denaro, la propria realizzazione personale, la salute, la sessualità potranno placare quella fame di infinito che ci portiamo dentro? Davvero vogliamo lasciarci anestetizzare l’anima, la coscienza?
Ecco allora che gli imperfetti delle beatitudini, diventano tali, cioè felici ora e per sempre, perché abbandonano queste logiche, e trovano in Dio la fonte vera della gioia e dell’amore. Quella che non sarà tolta loro nemmeno con la morte, perché vivono da risorti già qui e ora
.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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