Perché Maria viene chiamata “donna” da Gesù e non “mamma”?

II domenica del tempo ordinario – anno C

Is 62,1-5; Sal 95; 1Cor 12,4-11; Gv 2,1-12

Domenica scorsa, celebrando il Battesimo di Gesù nel fiume Giordano, la Chiesa ha dato inizio a un nuovo tempo liturgico: quello Ordinario, in cui si medita sul ministero itinerante di Gesù. Chi ha avuto l’occasione di meditare i brani del vangelo della settimana, si sarà reso conto come la Chiesa ci abbia fatto meditare sugli inizi della vita pubblica di Gesù a partire dalle narrazioni dell’evangelista Marco.

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Questa domenica, tuttavia, siamo chiamati a meditare sugli inizi della vita pubblica di Gesù a partire dall’ultimo degli evangelisti: Giovanni (egli infatti ha scritto la sua opera verso la fine del I secolo).
Tema centrale attorno alla quale ruotano le letture la sponsalità umano-divina alla quale Dio ci chiama (preannunciata da Isaia, prima lettura, e realizzata da Cristo, vangelo).

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I LETTURA
Dal libro del profeta Isaia (62,1-5)

Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.
Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine,
così ti sposeranno i tuoi figli;
come gioisce lo sposo per la sposa,
così il tuo Dio gioirà per te.

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Contesto
Ci troviamo dinanzi a una vera e propria dichiarazione d’amore di Dio al suo popolo. La sua passione per l’umanità è tale che, come abbiamo visto anche la scorsa domenica, non riesce a stare confinata nell’eternità inaccessibile per l’uomo, ma si manifesta con toni accesi. In effetti il brano si apre proprio con questa annotazione: è l’amore che spinge Dio a parlare al suo popolo: gli impone un movimento discendente, kenotico potremmo dire, di abbassamento, verso l’uomo, il totalmente altro da Lui. Ecco dunque l’inizio solenne di questo brano:

Per amore di Sion non tacerò,
per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo,
finché non sorga come aurora la sua giustizia
e la sua salvezza non risplenda come lampada.

Qual è il cuore della questione, il contesto nel quale si pongono queste affermazioni di YHWH? Israele sta vivendo il dramma della deportazione in Babilonia, frutto di una politica che ha voluto restare sorda alle esortazioni di Dio per mezzo del profeta (YHWH, infatti, attraverso il profeta Geremia, invitava Israele a non scendere in guerra contro il potente impero babilonese, ad accettare un accordo).
Se da un lato il popolo, nella sua presunzione e nel suo orgoglio, è voluto rimanere sordo alle parole di Dio, voltandogli le spalle, questi però non cessa di amarlo e di beneficarlo. Da qui, dunque, una dichiarazione d’amore e una promessa di liberazione, che risultano quanto mai immeritate.
Israele, quindi, farà esperienza di come non solo Dio non è il giudice punitore, ma il salvatore e il liberatore che ama senza condizionamenti dello stato morale dell’altro.

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L’amore di Dio rivela l’identità di Israele
Un altro aspetto importante di questo brano, è che la liberazione di cui Israele godrà non sarà orientata a far emergere Dio (come per dire “te l’ho detto”), ma il popolo stesso. Facciamo attenzione a questo passaggio:

Allora le genti vedranno la tua giustizia,
tutti i re la tua gloria;
sarai chiamata con un nome nuovo,
che la bocca del Signore indicherà.

L’azione di Dio è mirata non a imporre la sua grandezza a Israele, ma perché quest’ultimo si elevi sopra le nazioni, si trascenda. Allo stesso modo è così che si rivela il Padre nella nostra vita: la sua misericordia ci eleva dal nostro stato di prostrazione morale. Egli si fa uomo, per rendere noi déi. Ben a ragione afferma il Salmista:

Io ho detto: “Voi siete dèi,
siete tutti figli dell’Altissimo (Sal 82,6)

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Ma non solo. In funzione di questo grande amore che Dio ha per l’umanità, rappresentata dal popolo eletto, non solo la rende grande agli occhi delle altre nazioni, ma suggella con lei la sua tenerezza con un vincolo nuziale. E qui si situa lo scandalo della passione di Dio per quella che creatura fatta a sua immagine e somiglianza che è l’uomo:

Sarai una magnifica corona nella mano del Signore,
un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata,
né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma sarai chiamata Mia Gioia
e la tua terra Sposata,
perché il Signore troverà in te la sua delizia
e la tua terra avrà uno sposo.

Israele sarà chiamato “Mia Gioia”, cioè compiacimento di Dio, suo orgoglio. Egli si donerà al paese non più come il Dio supremo, altissimo e inarrivabile, ma come lo sposo. La relazione cambia significativamente: qui ormai sono due persone alla pari, chiamati a nutrirsi dell’amore vicendevole, nell’intimità e nell’eternità.
Di fronte alla grandezza alla quale Israele è chiamato: cosa dovrà fare per non sciupare un dono tanto grande? Nulla di impossibile: non dimenticarsi di amare il suo sposo! Tutto qui!
Ovviamente Israele non riuscirà a mantener fede alle sue promesse nuziali, cadrà tante volte, e altrettante sarà rialzata. Ma la promessa di questa intimità con Dio resterà sempre valida, per quanto il popolo si rivelerà adultero: costantemente attratto dai culti idolatrici.

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Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (2,1-12)

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora».
Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Per l’evangelista Giovanni, Gesù inizia il suo ministero da un matrimonio. In un contesto nuziale si situa il suo primo miracolo, indice non solo della particolare cura e attenzione che ha per gli sposi, ma anche simbolo di tutti gli altri miracoli, tesi cioè a ristabilire una sorta di armonia nuziale tra l’anima credente e il suo sposo il Padre.

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La presenza di Maria
L’evangelista Giovanni ci fa comprendere che Gesù con i suoi discepoli, vengono invitati non per loro stessi, ma per il legame che li unisce a un altro ospite più vicino agli sposi: Maria, la madre di Gesù.
La sua è una presenza premurosa, sta alla tavola della festa senza distrarsi dalle necessità degli invitati. È lei, infatti, che percepisce per prima la carenza di vino, e subito prova a porvi rimedio, chiamando in causa il figlio. Dopotutto, ben lo annota l’evangelista, Maria è presente alle nozze non col proprio nome, ma col suo titolo di madre:

In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.

Ma non solo. La sua presenza è condizione necessaria perché si avveri il primo miracolo di Gesù.

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Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».

Nella sua premura verso gli ospiti e gli sposi, lei si comporta non solo come la madre di Gesù, ma anche come la madre di tutti i presenti. In questo caso, dunque, ben a ragione gli esegeti situano l’atteggiamento materno della Vergine Maria, quale anticipazione del ruolo ecclesiale che Gesù le darà sulla croce:

Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé (Gv 19,26-27).

Ben a ragione il mariologo Valentini afferma:

La madre di Gesù nella pericope di Cana compare in posizione strategica e con un ruolo unico accanto a Gesù e ai discepoli. Ella infatti non viene presentata con il suo nome personale quasi si trattasse di un personaggio privato, ma con l’appellativo di madre di Gesù, che la caratterizza ufficialmente, e con quello di donna che già annuncia il ruolo che ella assumerà nella parte centrale della pericope e in particolare nel primo dialogo, quello con Gesù.

A. Valentini, Maria secondo le scritture. Figlia di Sion e Madre del Signore, EDB, 2007 Bologna, p. 289.
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Perché Gesù chiama Maria col titolo di donna e non di madre?
Per comprendere l’affermazione di Gesù, dobbiamo tenere a mente che il vangelo di Giovanni è quello che viene scritto diversi decenni dopo gli altri (soprattutto rispetto a quello di Marco che fu il primo). Per questo le annotazioni dell’evangelista sono più di tipo teologico che storico-narrativo. Al tempo delle prime persecuzioni cristiane, egli vuole dare un messaggio di speranza alle comunità cristiane da lui fondate, e allo stesso tempo rivelare in maniera inequivocabile l’identità di Gesù come figlio di Dio. Per questo motivo Giovanni, a differenza di Matteo e Luca, non riporta i racconti della nascita e infanzia di Gesù, ma nel suo prologo proietta le sue origini nell’eternità, quale Verbo increato del Padre.

Il fatto che Gesù chiami Maria con titolo di donna, rientra all’interno di un piano teologico molto più ampio che collega, come abbiamo visto, il miracolo delle nozze di Cana all’evento della Croce, dove ad essere versato è, potremmo dire, un vino eucaristico. In entrambe le narrazioni Maria viene appellata col titolo di “donna”, così come fu chiamata la prima compagna dell’uomo:

Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio formò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
“Questa volta
è osso dalle mie ossa,
carne dalla mia carne.
La si chiamerà donna,
perché dall’uomo è stata tolta” (Gv 2,21-23).

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Così come Cristo è il principio dell’umanità rinnovata (Cfr. 1Cor 15,22), allo stesso tempo Maria ne diventa la prima compagna, collaboratrice attiva ed efficace nell’opera salvifica del Figlio. Ecco, dunque, svelato il significato di quell’appellativo il quale, anziché togliere dignità alla figura di Maria, la eleva a uno stato qualitativamente superiore.
Per questa ragione non deve passare inosservata nemmeno l’appunto che Gesù fa alla madre:

E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora».

L’ora di Gesù è quella della passione, morte e risurrezione, quella della croce da cui verserà sangue e acqua, simbolo dei sacramenti. Anche in questo caso, l’evento delle nozze di Cana è un’anticipazione della figura di Cristo e della salvezza che apporterà all’intero genere umano.

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La docilità dei servitori
Tra gli invitati delle nozze, si aggirano i servitori: uomini e donne senza un nome il cui contributo sarà importantissimo per la realizzazione del prodigio. Essi, senza batter ciglio accolgono l’invito dell’ospite d’onore, Maria, e di suoi figlio:

Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.

Il comando che ricevono è alquanto assurdo: manca il vino e viene chiesto di servire acqua in abbondanza (sei giare contenevano circa 500 litri). Eppure obbediscono, senza batter ciglio.
Riteniamo essere davvero importante per tutti noi, il loro atteggiamento. Talvolta anche a noi la volontà di Dio può risultare incomprensibile, strana, priva di senso. Da essi impariamo la docilità di non stare a sindacare, ma di essere uomini e donne di poche parole e più fatti.

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Ciò che prima conteneva il peccato, ora ha il sangue di Cristo
Di fronte alla solidità dell’intervento di Maria, Gesù sembra capitolare. Tuttavia quello che riteniamo essere un dettaglio davvero importante è l’annotazione circa quello che conterrà il vino di Gesù:

Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono.

Le giare nelle sale da pranzo erano presenti per le abluzioni rituali. Gli israeliti, infatti, erano convinti che il peccato fosse un residuo che restava appiccicato sulla pelle dell’uomo, per cui era necessario purificarsi, lavandosi abbondantemente, perché non si contaminasse.
Rendendo quei vasi in contenitori di quel vino nuovo dell’alleanza eucaristica, Gesù rivela qualcosa di centrale per la nostra vita cristiana: essi sono contenitori fragili, che da impuri vasi che contenevano il peccato ora contengono la grazia di Dio. San Paolo rilegge questa grazia di Dio usando questi termini:

Noi però abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi (2Cor 4,7). 

Qui si situa la sintesi di tutta l’opera salvifica di Cristo il quale, anziché umiliare la natura umana, la nobilita, qui si situa tutto il significato di quei Sacramenti che vengono mediato da Dio all’umanità, attraverso la fragilità dei suoi ministri.

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Conclusione
Il brano si conclude con lo stupore del Maestro di tavola, colui che dirigeva la festa nei suoi tempi e si assicurava che tutto procedesse liscio. Proprio lui sarà il primo a stupirsi, lui che in realtà è stato trovato carente nei suoi doveri, tanto da non essere riuscito a prevedere la quantità giusta del vino. Per lui non arriva nessuna recriminazione ed è per noi un’ulteriore provocazione a non star lì a sindacare sulla vita degli altri, sul loro operato, come se la nostra vita fosse il salotto di un talk show pomeridiano, dove chiunque si sente autorizzato a dire qualsiasi cosa.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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