Perché il Battista chiama Gesù col titolo di Agnello, e non come del più fiero Leone di Giuda?

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele».
Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1,29-34).

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CONTESTO
Dopo le narrazioni legate alla nascita e infanzia di Gesù, ecco che la liturgia della Parola di oggi ci offre una riflessione sul suo mistero, a partire dalla prospettiva di Giovanni Battista: quel “profeta” che camminando nel deserto, non troppo lontano dal fiume Giordano, con la sua predicazione attira a sé una moltitudine di persone. Tra gli evangelisti, Luca, poi, ci offre un’ulteriore punto di vista di come Giovanni attirasse a sé persone di ogni levatura culturale e spirituale. Leggiamo, infatti, nel terzo capitolo del suo vangelo:

Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?”. Rispondeva loro: “Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto”. Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: “Maestro, che cosa dobbiamo fare?”. Ed egli disse loro: “Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato”. Lo interrogavano anche alcuni soldati: “E noi, che cosa dobbiamo fare?”. Rispose loro: “Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe” (Lc 3,10-14).

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FARE SPAZIO A CRISTO
Nel brano evangelico di oggi, poi, l’evangelista Giovanni ritrae il Battista proprio nel massimo della sua popolarità, quando ormai catalizzava su di sé l’attenzione anche delle autorità morali e religiose della sua epoca, e quella persino del re Erode Antipa. Qui succede qualcosa che cambia le carte in tavola, rapidamente: Giovanni anziché godere di quel momento e premere ulteriormente l’acceleratore per portare avanti la sua dottrina, e in maniera indiretta aumentare l’influsso della sua popolarità, ecco che lo vediamo farsi da parte.

A questo atteggiamento di decentrarsi, abbiamo dedicato uno degli ultimi approfondimenti biblici, guardando l’atteggiamento del discepolo amato il quale, correndo con Pietro arriva per primo alla tomba vuota di Cristo, ma si ferma e lo lascia entrare in segno di rispetto verso un ruolo e una vocazione di guida datagli dal Maestro. In quell’occasione, avemmo modo di dire quanto sia importante per la nostra vita cristiana e comunitaria, il farci da parte:

Dall’apostolo Giovanni, dunque, oggi impariamo che stare in seconda fila, cedere il posto a qualcun altro, è davvero mettere in atto, concretizzare, la verità di noi stessi, di chi siamo all’interno della comunità. Scegliere per il sé il secondo gradino di un podio, davvero, non è per perdenti, ma fondamento della fraternità, della comunionalità ecclesiale, e parrocchiale. Se Giovanni, nella sua giovane età, non fosse stato tanto saggio da attendere Pietro e farlo entrare per primo, oggi non avremo la Chiesa universale così come la conosciamo, ma piccole comunità divise che si contendono il primato della verità e di ogni altra supremazia. Questo perché i diversi apostoli fondarono nuove comunità cristiane nella misura in cui si allontanarono da Gerusalemme dopo l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste.

L’eleganza dei secondi. Quando il successo di una vita cristiana non è primeggiare

L’atteggiamento di Giovanni che indica Cristo come il Messia atteso dalle genti, e non la sua persona al massimo della popolarità, è quello del vero discepolo di Cristo che impara a fare spazio a Dio e al prossimo. Ma è anche l’atteggiamento della Vergine Maria, che non si arroga dei diritti sociali e spirituali per aver accettato la vocazione di essere la Madre del Figlio di Dio.

Ma non solo. Da lui oggi impariamo ad essere uomini e donne che sappiano indicare a questo nostro mondo sempre più pagano, chi è il vero Dio, cosa significhi essere cristiani, quali siano i diritti, certamente, ma anche i doveri. Soprattutto siamo chiamati a riconoscere che non c’è vera vita cristiana senza questo impulso missionario, indice di una vera condivisione fraterna, e compartecipazione all’opera redentrice di Cristo, alla quale il Signore ci chiama.

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PERCHÈ GIOVANNI BATTISTA CHIAMA GESÙ «AGNELLO DI DIO»?
Il modo in cui nominiamo una persona, non è mai casuale. Al contrario esso indica il modo in cui la vediamo e definiamo. Allora perché il Battista sceglie per Gesù proprio l’immagine dell’agnello? Di certo non è tra gli animali più fieri e intelligenti.
In realtà per la mentalità ebraica antica, e per tutta la rivelazione biblica, l’immagine dell’agnello è quanto mai evocativa. Innanzitutto, per il suo candore e la sua mansuetudine, richiama il mistero della passione di Cristo che incarna la profezia di Isaia circa il Servo sofferente. Leggiamo:

Chi avrebbe creduto al nostro annuncio?
A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini,
uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui
l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca (Is 53,1-7).
.

Per la sua carne pregiata, poi, l’agnello, a livello liturgico-cultuale, era la vittima sacrificale privilegiata per gli israeliti. Esso veniva offerto sull’altare del tempio e il profumo della sua carne arrostita che si elevava al cielo, avrebbe in qualche modo reso Dio più propenso ad accondiscendere benevolmente alle grazie che l’uomo dell’epoca richiedeva.
Tuttavia il senso dell’immagine dell’agnello riferito a Cristo, si rivela in maniera più evidente, in un altro rituale israelita: lo yom kippùr, o giorno dell’espiazione. Poiché all’epoca non esistevano i Sacramenti (questi furono istituiti da Cristo), il pio israelita poteva solo sperare che Dio perdonasse i suoi peccati. Così, una volta all’anno, a Gerusalemme si celebrava una liturgia durante la quale il sacerdote affidava tutti i peccati di Israele a un agnello, e questo, poi, veniva lasciato vagare nel deserto, lontano dai centri abitati per non contaminarli. Nel libro del Levitico, viene così codificata la liturgia espiatoria di Israele:

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Quando avrà finito di purificare il santuario, la tenda del convegno e l’altare, farà accostare il capro vivo. Aronne poserà entrambe le mani sul capo del capro vivo, confesserà su di esso tutte le colpe degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Così il capro porterà sopra di sé tutte le loro colpe in una regione remota, ed egli invierà il capro nel deserto (Lv 16,20-22).

Giovanni Battista, dunque, e poi tutta la tradizione cristiana, ha visto in questo agnello, capro espiatorio, l’esperienza del Figlio di Dio, il Servo sofferente di Isaia, che da innocente si addossa le colpe dell’umanità, i suoi peccati, e li porta via con sé. Questa è anche la teologia dell’apostolo Paolo sulla persona di Gesù Cristo:

[Gesù] è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione (Rm 4,25).

Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l’ho annunciato. A meno che non abbiate creduto invano!
A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè
che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture
e che fu sepolto
e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture
e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici (1Cor 15,1-5).

Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen (Gal 1,1-5).

Dalla consapevolezza del sacrificio di Cristo, dal prezzo con il quale ha pagato la nostra salvezza, siamo chiamati a riconoscere i grande valore dei Sacramenti, la loro importanza per la vita cristiana. Tra questi soprattutto il Sacramento della Riconciliazione: lì dove, infatti, gli antichi israeliti si auspicavano una remissione dei peccati, Cristo la concede effettivamente all’uomo che si accosta al Sacramento da lui istituito e poi mediato dagli Apostoli e dai loro successori.

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L’AGNELLO-PASTORE GUIDA UN GREGGE DI FRATELLI
Guardando l’esperienza di Cristo e di come la prima comunità cristiana, sintetizzò il mistero della sua persona, noi oggi siamo chiamati a riconoscere il valore del sapersi sacrificare, spendersi per gli altri, soprattutto in un’epoca edonistica che ci invita a porre al centro la nostra personale, gli ideali e l’autorealizzazione, come anti-valore massimo. Dall’esperienza di Gesù, oggi veniamo provocati nella capacità di un superamento personale nell’amore del prossimo, facendogli spazi e donandoci a lui completamente.
Quanta serenità riusciremmo ad acquisire nella nostra vita, se non stessimo sempre sul piede di guerra, guardinghi e ciechi al punto di credere che tutti non aspettano altri che farci uno sgambetto, ma imparassimo che accogliere l’altro nella sua diversità, accettarlo come portatore di valori per la nostra vita, divenendo uomini e donne di carità fraterna nel sacrificio del nostro ego sempre più spropositato e, per questo, sempre più ferito e frustrato.
Proprio perché Gesù accetta per sé il mistero di agnello sacrificale sull’altare della croce, può divenire davvero il nostro pastore che ci indica la via della vera felicità, della gioia eterna, della santità del quotidiano. Le sue parole non possono non mettere in crisi il nostro modo di essere all’interno della Chiesa:

Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore (Gv 10,11).

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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