II domenica dopo Natale
Sir 24,1-4.8-12; Sal 147; Ef 1,3-6.15-18; Gv 1,1-18
La II domenica dopo il Natale, per noi cristiani è davvero importante. Infatti, se in questi giorni abbiamo avuto modo di approfondire l’aspetto umano della nascita di Cristo, dal grembo verginale di Maria, rifiutato dagli abitanti di Betlemme e costretto a venire al mondo in un luogo destinato alle bestie, ecco che con questa domenica ne contempliamo l’aspetto divino: il suo essere generato dal Padre nell’eternità.
Per questa ragione, tutte le letture di questa domenica rimandano al ruolo del Figlio di Dio, il Verbo eterno del Padre, nella compartecipazione alla creazione e redenzione del mondo.
I LETTURA
Dal libro del Siracide (24,1-4.8-12)
La sapienza fa il proprio elogio,
in Dio trova il proprio vanto,
in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria.
Nell’assemblea dell’Altissimo apre la bocca,
dinanzi alle sue schiere proclama la sua gloria,
in mezzo al suo popolo viene esaltata,
nella santa assemblea viene ammirata,
nella moltitudine degli eletti trova la sua lode
e tra i benedetti è benedetta, mentre dice:
«Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine,
colui che mi ha creato mi fece piantare la tenda e mi disse:
“Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele,
affonda le tue radici tra i miei eletti” .
Prima dei secoli, fin dal principio,
egli mi ha creato, per tutta l’eternità non verrò meno.
Nella tenda santa davanti a lui ho officiato
e così mi sono stabilita in Sion.
Nella città che egli ama mi ha fatto abitare
e in Gerusalemme è il mio potere.
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso,
nella porzione del Signore è la mia eredità,
nell’assemblea dei santi ho preso dimora».
La teologia cristiana ha individuato in questa sapienza di Dio, il mistero del Figlio di Dio, collaboratore del Padre nella creazione e nell’opera salvifica del genere umano. Il mistero della sua missione sembra essere quello di fare da ponte tra Dio e gli uomini, una sorta di mediatrice celeste. Infatti accoglie l’invito divino:
“Fissa la tenda in Giacobbe e prendi eredità in Israele,
affonda le tue radici tra i miei eletti” .
Il brano ci rivela qualcosa di fondamentale nell’atteggiamento di Dio: il suo abbassarsi verso gli uomini è indice della sua misericordia, della sua tenerezza che non gli permette di stare recluso nel suo “monte santo” come le divinità greche sull’Olimpo, ma si abbassa verso l’uomo e cerca con lui possibilità d incontro e di dialogo. Questo è, dopotutto, il mistero stesso del Natale dove celebriamo l’Altissimo che si fa piccolissimo e così facendo ci raggiunge nella nostra umanità, dall’eternità nella quale risiede si inserisce nel tessuto storico degli uomini e la rinnova interiormente.
«Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso»
Tuttavia al Signore non basta averci raggiunto solo una volta, in un determinato contesto storico e sociale, oltre due millenni orsono, ma una volta raggiunto l’uomo non lo lascia più e in ogni istante cerca con lui un contatto. Non a caso, la discesa di questa sapienza divina, mediatrice del Signore e ponte tra gli uomini e l’Altissimo, non scende sulla terra per poi tornarsene nell’alveo della sua eternità, ma, appunto, fonda le sue radici nel tessuto storico degli uomini.
Un esempio di questa permanenza divina con l’umanità sono i Sacramenti, la preghiera, il poterlo percepire nei contesti esistenziali e quotidiani: situazioni, eventi e persone che arricchiscono la nostra vita.
II LETTURA
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesini (1,3-6.15-18)
Benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà, a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato.
Perciò anch’io [Paolo], avendo avuto notizia della vostra fede nel Signore Gesù e dell’amore che avete verso tutti i santi, continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere, affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
Se c’è una cosa che l’apostolo Paolo ha chiara è questa: l’iniziativa redentrice di Dio nei riguardi dell’umanità, affonda le sue radici nella creazione. È chiaro che Dio ha creato l’uomo per l’eternità, per permettergli di vivere nella santità della comunione intima e affettiva con lui fin da subito. Il peccato dei progenitori, inteso come un atto di sfiducia e di ribellione nei riguardi del Signore, si situa nel corso dell’umanità come un accidente che però non potrà mai fermare la mano redentrice di Dio che risolleva quella creatura, ancora nello stato di peccato (Cfr. Rm 5,6.8), e la rende figlia. Da qui, si comprende l’affermazione paolina:
In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo
Tuttavia perché possa realizzarsi in noi questa figliolanza divina, concessaci per la mediazione del coeterno Figlio di Dio, è necessario che si realizzino due condizioni. L’apostolo Paolo, la dice ben chiaro, fugando ogni dubbio in merito:
per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità.
Le condizioni da soddisfare per ritenerci dei veri figli di Dio sono l’essere santi, quindi camminare nella giustizia, nella legalità, nell’ottemperanza di tutti i doveri di figli di un tale Padre, e immacolati, capaci di una certa limpidezza interiore. Perché queste condizioni possano realizzarsi, l’apostolo Paolo invita a fare nostre due virtù: il vivere costantemente alla presenza del Padre, «di fronte a lui», nella preghiera ed essere uomini e donne di comunione fraterna, «nella carità». Ci troviamo di fronte a una forte provocazione per la nostra vita cristiana, perché ci rivela che possiamo davvero essere figli di Dio, e non soltanto dircelo, nella misura in cui riconosciamo che non si può precludere il fratello dal nostro cammino, dalla nostra vita.
È questa la nostra vera vocazione, quello che siamo chiamati a divenire ed essere, quello per cui Dio ci ha donato la vita. Continua, così, infatti, l’apostolo:
predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo, secondo il disegno d’amore della sua volontà.
Il Signore, oggi, per mezzo dell’apostolo Paolo ci sta rivelando qualcosa di davvero importante: per essere santi, come Dio spera da noi, non è necessario morire martiri, né essere dei mistici. Basta essere uomini e donne che si santificano e purificano il proprio cuore, attraverso la carità vicendevole, la compassione, la misericordia. Dopotutto, questa fu anche l’intuizione dell’apostolo Pietro che nella sua prima lettera afferma:
La fine di tutte le cose è vicina. Siate dunque moderati e sobri, per dedicarvi alla preghiera. Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare (1Pt 4,7-9).
La chiusura all’altro è indice di cecità interiore
Nella sua lettera l’apostolo inserisce anche un augurio davvero molto importante: quello che i cristiani riescano capire la grandezza alla quale sono chiamati a motivo della tenerezza divina manifestata in Cristo Gesù. Rileggiamo:
il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati.
Per l’apostolo Paolo l’orgoglio, la superbia, il pregiudizio sono indice di una grave cecità interiore, un vero e proprio atto di ribellione nei riguardi di Dio per il quale se ne resta ciechi e impassibili di fronte alla sua tenerezza.
Oggi ancora molti cristiani che si dicono praticanti (come se esistessero i non praticanti), vivono una vita da ciechi, da infelici. Uomini e donne che siedono ai banchi delle nostre chiese, ma alla fine di fare comunità non ne vogliono sapere. Per Paolo essi sprecano non solo la loro vita, ma anche la loro stessa vocazione alla santità, alla felicità, alla grandezza per la quale Dio li ha chiamati alla vita, sono ribelli che si dirigono inesorabilmente verso un’eternità da estraniati da Dio e dalle cose che gli riguardano.
Oggi più che mai siamo chiamati a riconoscere che non c’è salvezza senza il fratello, l’altro diventa condizione per la nostra santificazione, porta d’accesso per il Regno dei cieli. Ci viene offerta una grande gioia e la rifiutiamo. Dopotutto è quello che accade a Caino: egli riversa nel fratello innocente tutta la sua frustrazione e quando Dio gli si china dinanzi egli è incapace di ascoltarne il richiamo, perché ormai ha fatto di se stesso il proprio idolo. Leggiamo questa esperienza di Caino, la quale non raramente diventa quella di molti cristiani:
Trascorso del tempo, Caino presentò frutti del suolo come offerta al Signore, mentre Abele presentò a sua volta primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a Caino: “Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai”. Caino parlò al fratello Abele. Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise (Gen 4,3-8).
Il Paradiso sulla terra
Riteniamo importanti le parole con le quali il brano di questa seconda lettura si conclude. Rileggiamo:
quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi.
Possiamo rendere la nostra vita belle e vivere già qui e ora un’anticipazione del Regno dei cieli, nella misura in cui siamo uomini e donne di profonda e vera preghiera, capaci di riportare Dio in tutte le situazioni della loro quotidianità, vivendo alla sua presenza. Solo un cristiano capace di questo rapporto con il suo Signore, potrà anche essere un uomo di comunione, di quella carità fraterna che diventa anticipazione della gloria dei santi, della gioia eterna, da qui il senso delle parole di Paolo. Allora domandiamoci: se siamo chiamati a questo «tesoro di gloria», perché accontentarci delle briciole? Perché non osare l’amore? Ricordiamolo: esso è vero ed è tale solo nella misura in cui fa male, impone una morte all’amor proprio, al proprio ego spropositato.
Vangelo
Dal Vangelo secondo Giovanni (1,1-18)
In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama:
«Era di lui che io dissi:
Colui che viene dopo di me
è avanti a me,
perché era prima di me».
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto:
grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto:
il Figlio unigenito, che è Dio
ed è nel seno del Padre,
è lui che lo ha rivelato.
Contesto
Ci troviamo di fronte al solenne prologo con il quale inizia il Vangelo di san Giovanni. Egli, diversamente da Matteo e Luca, non riporta propriamente i Vangeli dell’infanzia, i brani, cioè, che ricordano gli eventi della famiglia di Nazaret nei primi passi della loro vita domestica. Non viene, nemmeno, riportato nessun episodio del Gesù fanciullo, ma riporta all’eternità la sua “genesi”, come Figlio del Padre generato da lui nell’eternità.
Per Giovanni quel Gesù storico che muore in croce e poi risorge, nato a Betlemme da una famiglia come tante, è il Verbo coeterno di Dio generato da lui prima che il mondo fosse, anzi è persino coautore della creazione. Infatti afferma:
tutto è stato fatto per mezzo di lui.
Questo Verbo di Dio inaccessibile, nel tempo e nello spazio, come il Padre, colma l’insondabile vuoto tra il cielo e la terra, divenendone il ponte (da cui Pontefice), condizione di accesso dell’uomo al cielo e di Dio alla terra. Perché questo possa accadere, egli deve abbassarsi, accogliere la fragilità della nostra natura:
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi
In che modo si rivela nella nostra quotidianità il Verbo?
L’apostolo Giovanni usa due simboli, due immagini, attraverso el quali spiega il modo in cui Dio, attraverso il Figlio, si è rivelato all’umanità non solo nella sua carne, due millenni fa, ma ancora oggi nella nostra esistenza feriale, quotidiana.
La prima immagine è quella della vita. Rileggiamo:
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini.
Il Verbo di Dio non solo ha collaborato una sola volta col Padre donando la vita all’universo, nella creazione, ma in qualche modo dona la vita all’uomo ogni giorno, in ogni respiro, e gliela dona, persino, per l’eternità (avendo pagato a prezzo del suo sangue il riscatto dell’uomo dalle falangi della morte e del peccato).
L’intuizione di Giovanni è particolarmente importante perché ci rivela il modo di donarsi di Dio. Infatti se il Verbo si identifica nella vita, questa non resta rinchiusa in sé, ma si dona. Infatti condivide con l’uomo, non solo ciò che ha, ma ciò che è: essendo vita, dona la vita. Da questa donazione di Dio che si dona e si fa dono, cogliamo ancora una volta la sfida dell’amore per il nostro prossimo, come condizione per realizzare quella vocazione alla quale Dio ci chiama fin dagli albori dell’amicizia con l’uomo:
Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo (Lv 11,44)
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro (Lc 6,36).
La connotazione del simbolismo della vita, poi, ha un rimando affettivo che sarebbe utile ricordare. Dio è la vita che ci consente l’esistenza (ora e per l’eternità), ma allo stesso tempo rende bella la nostra esistenza perché appunto è lui stesso l’Amore (Cfr. 1Gv 4,8). Se c’è una cosa che comprendiamo fin dagli inizi della nostra adolescenza è che l’amore rende bella da vivere la nostra vita. Non a caso quando si ama particolarmente una persona, le si dice: “sei la vita mia”. Se questo è vero tra due persone innamorate, o comunque molto unite da vincoli affettivi o parenterali, è ancora più vero nella nostra relazione con Dio.
La seconda immagine che Giovanni usa per qualificare il Verbo increato e divinamente generato è quella della luce:
La luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Come la luce di un nuovo giorno dona nuovo colore alle nostre città, nuova bellezza al creato e lo splendore dell’alba cattura i nostri sensi e tacitamente ci invitano a lodarne il Fattore, ancora di più lo è presenza di Cristo nella nostra vita. Egli illumina non solo il nostro mondo interiore (le nostre mozioni, scelte e atteggiamenti, paure ancestrali e gioie), ma anche ci permette di essere persone nuove, capaci di riflettere la sua luce al nostro prossimo. Dopotutto è innegabile che chi ha davvero incontrato Cristo nella sua vita e ne ha fatto un’esperienza trasformante, è subito riconoscibile. È come se avesse una marcia in più, una luce particolare nello sguardo, una gioia intima che traspare in gesti di tenerezza e accoglienza.
Ma non solo. Gesù è la luce che distrugge le tenebre del nostro peccato e della morte, accostarsi a lui significa accostarsi alla gioia eterna pregustabile già qui ed ora.
La conseguenza di una vera accoglienza di Cristo
Se c’è qualcosa di davvero tanto grande che Giovanni scrive, riguardo Dio e il Figlio, tanto da sembrare quasi incredibile, è quello che scrive poco dopo. Rileggiamo:
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
L’evangelista Giovanni sta rivelando qualcosa di meraviglioso: l’accoglienza di Cristo nella nostra vita (nella serietà di tutto quello che comporta di adesione e conformazione alla sua vita), sortisce in noi una nuova esistenza: veniamo rimessi al mondo, non più gestati nel grembo materno, ma in quello divino.
L’uomo, dunque, che decide di fare sul serio con Dio, e di vivere una vera conformazione a Cristo, diventa davvero figlio di Dio proprio al pari del Figlio generato nell’eternità. Si realizza così l’intuizione del Salmo 82, che poi viene ripreso da Gesù in un suo insegnamento:
Io ho detto: “Voi siete dèi,
siete tutti figli dell’Altissimo (Sal 82,6).
Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo. Gesù disse loro: “Vi ho fatto vedere molte opere buone da parte del Padre: per quale di esse volete lapidarmi?”. Gli risposero i Giudei: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia: perché tu, che sei uomo, ti fai Dio”. Disse loro Gesù: “Non è forse scritto nella vostra Legge: Io ho detto: voi siete dèi? Ora, se essa ha chiamato dèi coloro ai quali fu rivolta la parola di Dio – e la Scrittura non può essere annullata -, a colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo voi dite: “Tu bestemmi”, perché ho detto: “Sono Figlio di Dio”? Se non compio le opere del Padre mio, non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre” (Gv 10,31-38)
Guardando alla grandezza alla quale siamo chiamati, oggi siamo invitati a riscoprire quanto è bella la dignità della nostra vita, della nostra esistenza. Siamo così belli che il Verbo di Dio ha voluto assumere la nostra natura, farsi simili a noi perché noi acquisissimo anche la dignità divina.
Ma per godere di questo valore aggiunto di bellezza, siamo chiamati davvero a credercelo, a non accontentarci della mediocrità di una vita cristiana fatta di una sola semplice Messa domenicale, del piccolo, ristretto e asfissiante, gruppetto di amici e parenti, della sciocca presunzione di bastare a noi stessi e di poter ignorare l’altro, sabotandolo.
Se la Chiesa nella quale vogliamo vivere, la riconosciamo per davvero come Corpo mistico di Cristo, allora dobbiamo amarlo questo Corpo in tutte le sue membra.
Nella seconda domenica di Natale, in maniera paradossale, dunque, non celebriamo il Natale di Gesù, ma il nostro (Cfr. Maestro Eckhart, Il Natale dell’anima)! Cristo nasce uomo, perché io oggi nasca come figlio di Dio, ma per esserlo devo davvero comportarmi in maniera degna di un tale Padre.
Fame della Parola di Dio?
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