L’eleganza dei secondi. Quando il successo di una vita cristiana non è primeggiare

La Chiesa oggi celebra la festa dell’apostolo ed evangelista Giovanni, che la tradizione plurisecolare della Chiesa, ha identificato come quel discepolo amato: quello che nell’ultima cena reclina il capo sul petto del Maestro Gesù.

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Per meglio celebrare questa figura così importante non solo all’interno della comunità di Gesù, ma anche nella primitiva cristianità, in quanto fondatore di nuove comunità e autore non solo di un vangelo, ma anche di tre lettere e dell’Apocalissi, la liturgia della Parola sceglie un brano evangelico quanto mai evocativo: quello che suole leggersi nella veglia nel giorno di Pasqua. Questo perché si vuole collegare l’esperienza di questo apostolo così importante in relazione alla risurrezione di Cristo, ma soprattutto il suo ruolo all’interno della comunità dei discepoli. Leggiamo:

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Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala corse e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».
Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.
Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.
Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette (Gv 20,2-8).

A due anni dal nostro inizio, la nostra missione sembra volgere al termine

CONTESTO
A livello narrativo ci troviamo alla conclusione del Vangelo giovanneo, in cui sono narrati gli eventi della risurrezione e le apparizioni del Figlio di Dio risorto che fonda la speranza dei discepoli e la loro fede circa le parole che aveva detto loro durante i suoi insegnamenti itineranti. Quello che la liturgia della Parola ci invita a meditare è, in particolar modo, la primizia della Risurrezione: i primi momenti in cui i discepoli si rendono conto che l’incredibile è accaduto. La tomba è vuota, e finalmente possono cominciare a comprendere la portata delle parole di Gesù poco prima:

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Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete”. Allora alcuni dei suoi discepoli dissero tra loro: “Che cos’è questo che ci dice: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”, e: “Io me ne vado al Padre”?”. Dicevano perciò: “Che cos’è questo “un poco”, di cui parla? Non comprendiamo quello che vuol dire”.
Gesù capì che volevano interrogarlo e disse loro: “State indagando tra voi perché ho detto: “Un poco e non mi vedrete; un poco ancora e mi vedrete”? In verità, in verità io vi dico: voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia (Gv 16,16-20).

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In effetti, quando ormai i discepoli, dopo l’evento del Golgota, pensavano che tutto fosse finito, che il Maestro avesse fallito miseramente la sue missione, ed essi aver sprecato tempo, energie ed entusiasmo per stare con lui, ecco che una notizia sconvolgente li turba: il corpo di Gesù non è più nel sepolcro.
Ecco allora la corsa, il cuore si riaccende batte forte nel petto, gli animi si rinvigoriscono e alla notizia della Maddalena Pietro e Giovanni, senza tergiversare o porre domande inutili, si mettono in cammino: corrono con tutte le loro forze verso il luogo dove era stato deposto il corpo esanime del Maestro.

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GLI UOMINI DI FEDE SONO TALI SOLO SE SONO IN MOVIMENTO
Ecco allora la prima provocazione per noi oggi: se la nostra fede non ci scomoda, non ci impone un cammino interiore, che imponga una costante crescita personale, ed esteriore, che ci imponga di approssimarci ai fratelli, allora non è fede: è convinzione a dei dati dogmatici e astratti, ma resta lì, come una filosofia e non diventa vita vissuta, concreta, pratica.

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Alla notizia di Maria di Magdala Pietro e Giovanni si mettono a correre, rivelandoci qualcosa di davvero importante: non possiamo far basare la nostra fede su quello che gli altri dicono e credono, sarebbe bigottismo e non cristianesimo, ma quello che gli altri apportano al dato di fede, deve essere per tutti noi uno sprone perché anche noi possiamo un’esperienza intima e trasformante di Dio.

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Dopotutto l’abbiamo ripetuto in svariati articoli, e visto l’attualità del tema per la nostra vita cristiana non ci stanchiamo di ripeterlo, colui che resta fermo sulle sue posizioni, monolitico, tutto d’un pezzo, non potrà mai essere un vero cristiano. Gesù nei suoi insegnamenti lo ripete più volte, per questo vi invitiamo a cliccare sul link qui in basso per approfondire questo tema così importante.

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L’ELEGANZA DEI SECONDI
Un dato interessante che cogliamo nel brano evangelico è che l’apostolo Giovanni, pur essendo arrivato per primo al sepolcro, attende Pietro e lo fa entrare per primo. Il motivo di questa sua attenzione ha per noi cristiani del III millennio un insegnamento molto attuale che spesso fatichiamo a comprendere.

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Dal giovane discepolo, comprendiamo innanzitutto che non si arriva a Cristo, o a fare un vero cammino di fede da soli, ma come comunità. Per questo attende l’arrivo di Pietro. Lo abbiamo ripetuto in almeno due dei nostri approfondimenti biblici che riportiamo di seguito:

Il cammino del cristiano non è un cammino in solitaria, ma un pellegrinaggio di fratelli riconciliati verso il Regno dei cieli. E se già lasciarsi mettere in cammino da Dio non è facile, lo è ancor meno quando bisogna farlo con gli altri, stare al loro passo. Eppure è solo lì che il Risorto si rivela

Nessuno può fermare il sogno di Dio

Gesù non appare ai discepoli mentre sono da soli, chiusi nella loro individualità. Al contrario, appare sempre mentre sono insieme. Lo vediamo infatti nel brano di questa domenica: per due volte appare mentre i discepoli si trovano in casa a porte chiuse (vv. 19,23; ), e la terza volta mente i discepoli tornano da un’infruttuosa notte di pesca sul lago di Tiberiade (Gv 21,1-14). Il modo di apparire di Gesù ai discepoli, esclusivamente quando sono insieme, deve essere per i cristiani di tutti i tempi, una forte provocazione: la comunione fraterna è condizione per fare esperienza del Risorto. Dio non ci salva come singoli, ma come popolo, ed è all’interno di questo popolo, che è la Chiesa, che siamo chiamati a riconoscerlo e accoglierlo.

La risurrezione spirituale di Tommaso. La riscoperta della comunità come condizione d’incontro con Cristo

Ma non solo. A Giovanni non basta attendere Pietro per entrare nel sepolcro ed essere spettatore della risurrezione, ma lascia che il primo tra gli apostoli entri per primo. Comprende una cosa fondamentale: perché la comunione comunitaria sussista, è necessario mantenere il rispetto dei ruoli, una gerarchia non dispotica, ma comunionale così com’è stata pensata da Gesù. Leggiamo infatti nel Vangelo secondo Matteo:

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E Gesù gli disse: “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,17-19).

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La comunità dei credenti può restare unita e rivelarsi al mondo quale Corpo mistico di Cristo, proprio perché resta unita grazie al promotore della fraternità che è Pietro, e poi i suoi successori. Il contrario, l’anarchismo voluto da chi pensa di fare davvero un cammino di fede, è la disgregazione disordinata, relativista e individualista, e per questo satanica, che distrugge le comunità, mina alle fondamenta dell’unione cristiana.
Dopotutto è Gesù stesso che usa l’immagine del pastore e delle pecore per indicare l’unione della comunità guidata non da una miriadi di capi che gareggiano nel primeggiare e nel fondare un proprio progetto, ma guidata da un solo pastore che si prende cura delle pecore, dando per loro la vita.
Ci troviamo di fronte a un insegnamento centrale che riporterà lo stesso apostolo Giovanni all’interno del Vangelo da lui redatto, ed è l’insegnamento del pastore buono. Leggiamo:

“In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei”. Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
Allora Gesù disse loro di nuovo: “In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio” (Gv 10,1-18).

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Dall’apostolo Giovanni, dunque, oggi impariamo che stare in seconda fila, cedere il posto a qualcun altro, è davvero mettere in atto, concretizzare, la verità di noi stessi, di chi siamo all’interno della comunità. Scegliere per il sé il secondo gradino di un podio, davvero, non è per perdenti, ma fondamento della fraternità, della comunionalità ecclesiale, e parrocchiale. Se Giovanni, nella sua giovane età, non fosse stato tanto saggio da attendere Pietro e farlo entrare per primo, oggi non avremo la Chiesa universale così come la conosciamo, ma piccole comunità divise che si contendono il primato della verità e di ogni altra supremazia. Questo perché i diversi apostoli fondarono nuove comunità cristiane nella misura in cui si allontanarono da Gerusalemme dopo l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste.

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«VIDE E CREDETTE»
L’annotazione con al quale si conclude il brano evangelico è davvero evocativo. Di fronte alla tomba vuota Giovanni non crede all’ipotesi del furto del corpo del Maestro, ma alla sua risurrezione. Perché? Perché il suo cammino di fede è diverso dagli altri. La fede non è una formula matematica che impone a tutti di fare una stessa esperienza. Allo stesso tempo, però, perché Giovanni accolga nel cuore la veridicità delle parole del Maestro circa l’annuncio della sua risurrezione, deve vedere.

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Chi crede che la fede sia un’adesione irrazionale a delle verità teologiche, lo ripetiamo, si sbaglia. Il bigottismo non è fede, ma autoconvinzione.
Nel dato di fede i sensi rientrano eccome. Dopotutto questo lo compresero anche gli autori sacri dell’Antico testamento. Citiamo, giusto per esempio, alcuni passaggi del libro dei Salmi:

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Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia (Sal 34,9).

Venite, vedete le opere del Signore,
egli ha fatto cose tremende sulla terra (Sal 46,9).

Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini (Sal 66,5).

Dall’esperienza di San Giovanni, sorge in noi la provocazione: dove vediamo Dio? In chi o in quale circostanza? Soprattutto, imparo da lui a correre, rimboccarmi le maniche, per cercarlo vivo e vero nella mia vita di ogni giorno? Riconosco che non posso fare questa esperienza di Dio, se nella mia “corsa” non includo anche il fratello? So fargli spazio? Ad imitazione di Giovanni, indico ai miei fratelli quell’ingresso al sepolcro che è il luogo d’incontro dell’uomo con Dio?

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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