In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,12-19).
Contesto
Nel precedente articolo, abbiamo avuto modo di approfondire come gli ultimi insegnamenti di Gesù prima della passione, siano espressione della tenerezza divina che non trattiene per sé energie e tempo pur di avere la possibilità di salvare un’anima. In quella circostanza, abbiamo avuto modo anche di approfondire il senso degli insegnamenti apocalittici di Gesù, tesi non a spaventare i discepoli, ma a rifondare la loro speranza.

Articolo importante per la comprensione del contesto attuale
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Il brano di oggi, dunque, si situa come perfetta consecuzione, narrativa e dottrinale, di quello approfondito ieri e per cui rimandiamo alla lettura, cliccando sul link sopracitato.
Gesù che si era diretto a Gerusalemme consapevole che avrebbe trovato incomprensioni, persecuzione e morte, tenta di fondare la speranza dei discepoli, intuendo che anch’essi subiranno la sua stessa sorte, e per questo li invita a non scoraggiarsi quando arriveranno le prove.
«Avrete allora occasione di dare testimonianza»
Cogliendo queste parole di Gesù sembra che si contraddica: se i discepoli subiranno la persecuzione a motivo della loro fede professata e testimoniata pubblicamente, perché dice che la loro testimonianza sarà data una volta che verranno perseguitati?
Qui entra in ballo l’origine etimologica della parola «testimonianza», ovvero il suo significato e la sua origine. Sappiamo, infatti, che i Vangeli ci sono giunti in greco, lingua che gli evangelisti hanno scelto di adottare nella redazione delle loro opere. In particolare la parola «testimonianza» viene dal greco μαρτύριον (martyrion), termine che l’evangelista usa quando riporta questa affermazione di Gesù. Cosa significa tutto ciò? È chiaro che per quanto nobile il nostro dirci cristiani, questa diventi veramente tale, si nobiliti, quando alla voce si unisce tutto il corpo, tutta la vita, che professa la nostra fede. Il martirio, dunque, inteso come dare la vita per Cristo, per la fede che professiamo e per i valori che ne traiamo e decidiamo di assumere e vivere, diventa la vera testimonianza del cristiano: un libello di fedeltà scritto col sangue che resta a memoria di tutta la storia dell’umanità fecondando questo mondo di vita nuova.
Di fronte a questa ricchezza di significati a cui rimanda l’affermazione di Gesù, non possiamo che domandarci: ma per noi cristiani in Occidente, che non vivono fenomeni di persecuzione, che senso hanno queste parole? In realtà anche se non ce ne rendiamo conto, già l’indifferentismo religioso, celato dietro la parola laicità, contiene in sé una persecuzione che però nei cosiddetti paesi del I mondo, quelli che si ritengono più sviluppati, è decisamente più subdola, perché ideologica. Non è un caso che non solo si sia tolto Dio da tutti i mezzi di comunicazione, ma lo si rende oggetto di scherno. Basti citare le vergognose copertine del tanto osannato giornale satirico francese “Charlie Hebdo”, che ritraggono nelle figure più oscene la Santissima Trinità e la figura di Gesù Cristo, ma per rimanere in terra italiana basta fare uno zapping tra le maggiori emittenti televisive del paese per rendersi conto dello scherno col quale vengono trattati i cristiani e la loro morale (giusto per fare alcuni esempi rimandiamo alla presunta satira dei programmi di Rai 3 e di Italia 1).
Dirsi cristiani oggi in Italia, per molti risulta essere una vergogna: si diventa prede facili del disprezzo altrui, di polemiche inutili e vuote di contenuti. La via più semplice, per molti purtroppo, diventa proprio quello che l’ideologia anticristiana desidera: vivere una fede privata, nascosta, individuale. E questa già non è fede! Cosa fare allora? A cosa ci invita Gesù? Esorta anche noi a non aver paura, a dare la testimonianza, a morire al nostro orgoglio, all’immagine di noi stessi che vorremmo dare agli altri, a soffrire anche per coloro che in questo modo ci causano dolore e frustrazioni.

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«Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita»
L’insegnamento odierno di Gesù si conclude con questa promessa. A chi non avrà avuto paura di morire per lui, imitando il suo sacrificio per la salvezza del genere umano, spetta la salvezza eterna.
È interessante quello che ci suggerisce il significato stesso della parola “perseveranza”. Il temine di origine latina, per-sevèrus, rimanda a una certa severità con se stessi, indica cioè l’imporsi una disciplina di condotta personale che sia ferrea, severa appunto. San Paolo nella sua prima lettera ai Corinti, coglie questo insegnamento di Gesù e avverte che tanto il corpo come l’anima hanno bisogno di un allenamento duro ed estenuante. Leggiamo:
Non sapete che, nelle corse allo stadio, tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è disciplinato in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona che appassisce, noi invece una che dura per sempre. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria; anzi tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato (1Cor 9,24-27).
Cosa significa tutto questo? San Paolo comprende che per dare una vera testimonianza alle comunità cristiane da lui fondate, deve sforzarsi di vivere una forma di ascetismo che educhi il suo corpo e la sua anima alle cose del cielo e non a quelle terrestri, per vivere questa vita costantemente proiettata alle cose celesti. Ha scoperto che vivere questa forma di ascetismo, fondata nell’amore e nella passione per Cristo, lo aiuta ad essere più coerente con la propria fede e lo rende consapevole della transitorietà della vita umana, dell’essere fatto per cose più grandi, più alte, più belle.

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Ci troviamo, ancora una volta, di fronte a una grande provocazione per la nostra vita. Lì dove la società invita all’autoconservazione, al limitare le energie e il tempo nel fare le cose, nel donarsi agli altri e a Dio, la fede cristiana ci invita invece allo spreco: all’impegnare tutto ciò che siamo e che abbiamo. A saper fare dono di quella grande ricchezza, sempre più rara, che è il nostro tempo, per donarlo nell’amore all’Altro attraverso gli altri.
Ecco allora che ci viene svelato un ulteriore strumento attraverso il quale guadagnare meriti per il regno dei cieli: il perseverare nella fede quando tutti intorno di dice che è inutile, uno spreco di tempo. Oggi, in maniera così subdola, un cristiano diventa martire quando la domenica anziché prestare ascolto a chi dice che è meglio fare altro (dormire, uscire, affaccendarsi tra i fornelli, stare proprio quel giorno con i figli, o lavorare) decide di andare in Chiesa per partecipare alla S. Messa, accettando la possibilità che al rientro a casa non otterrà che musi lunghi e mormorazioni.

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