Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù (Gv 2,13-22).
Introduzione
Se in queste settimane, la liturgia della Parola ci ha invitato a porre lo sguardo su Gesù meditando le vicende legate al suo cammino verso Gerusalemme, come narrato dall’evangelista Luca, oggi, invece, ci viene proposto di scostare un attimo l’attenzione da quei brani, per meditare una sezione del terzo capitolo del Vangelo secondo Giovanni. In particolare, la cacciata dei mercanti dal tempio. Ad offrire questo scostamento di attenzione è la festività che la Chiesa cattolica celebra: la dedicazione della basilica Lateranense.

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Perché questo evento è tanto importante da imporre uno scostamento d’attenzione nella nostra meditazione giornaliera della Parola di Dio? Perché ci troviamo di fronte alla prima cattedrale della cristianità, per molto tempo fu considerata la Chiesa-madre di Roma e ospitò le sessioni di cinque grandi Concili ecumenici.
Ma questo ancora non sarebbe sufficiente per giustificare questa euforica sosta, o cambiamento di tema. Il principio, e il valore, che soggiace è di tipo ecclesiologico: le Chiese di tutto il mondo, unendosi oggi alla Chiesa di Roma, le riconoscono la «presidenza della carità» di cui parlava già sant’Ignazio di Antiochia, tornano a rinnovare nel loro cuore, l’appartenenza a un unico corpo mistico di Cristo.
Celebrando dunque questa festa, fondiamo ulteriormente il nostro Battesimo, il nostro riconoscerci tutti appartenenti alla comunità dei redenti. Con uno sguardo puntato verso la basilica lateranense riscopriamo il valore della comunionalità, dell’essere uno in Cristo al di là di tutte le nostre differenze culturali, linguistiche, di razza e persino, potremmo dire, spazio-temporali. Soprattutto oggi riconosciamo che ognuno di noi è chiamato ad essere “basilica” di Dio, o meglio, suo tempio vivente.
Il problema dei mercanti
Ci troviamo di fronte a una delle pagine più dure dei vangeli: l’unica in cui vediamo Gesù che perde completamente le staffe. Gli evangelisti ci hanno abituato a intenderlo nella sua pacata mitezza, nella sua pazienza capace di sopportare tutto e tutti: dall’incomprensione, alle persecuzioni, dagli sputi alla crocifissione. Eppure quello che sta vedendo accadere al tempio di Gerusalemme non riesce a sopportarlo.

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Qual è il problema? Al tempo di Gesù era normale che ci fossero i mercanti tra le mura più esterne del tempio di Gerusalemme. Per intenderci questo era costruito come una serie di cortili concentrici, dove nella parte più centrale c’era il tempio vero e proprio (e nella sua stanza più interna il Santo dei Santi, una piccola stanza con incensi, lampade e pani votivi in cui si riteneva essere la presenza stessa di Dio). Man mano che ci si addentrava nei cortili, aumentava anche la sacralità del luogo. Le cortile più esterno c’erano i mercanti e i cambiavalute. Essi offrivano servizi necessari per il culto: i primi vendevano animali per i sacrifici (così che i pellegrini non li portassero lungo il viaggio), i secondi permettevano gli scambi di commerciali perché Israele, facendo parte dell’impero romano, era costretto a usare delle monete blasfeme, dove l’imperatore era raffigurato come un Dio. Poiché una tale blasfemia avrebbe reso impuro tutto il luogo sacro, il tempio aveva adottato una propria moneta.
Perché Gesù si arrabbia?
Se dunque tutto era motivato al bene e al favorire il culto e i pellegrini, dov’era il problema? Perché Gesù perde le staffe? Il nodo è quello dell’uomo di sempre: ciò che nasce come servizio, finisce per divenire motivo di lucro.
Il giro d’affari intorno al tempio era diventato così ampio (basti pensare che ogni israeliti, ovunque si trovasse, era tenuto a due pellegrinaggi annui a Gerusalemme) da sostenere l’intera economia di tutta Gerusalemme… ma questo a scapito dei pellegrini e della sacralità stessa del tempio.
Ci troviamo di fronte ai soliti corsi e ricorsi storici, alle ipocrisie dell’uomo di tutti i tempi, dai farisei agli scribi dell’epoca di Gesù, ai politici e elementi ecclesiali di oggi. Alcuni finiscono per pervertire qualcosa orientato al bene di tutti, per favorire solo se stessi e la cerchia dei propri amici e famigliari.
Oggi, dunque, vedendo questo brano del vangelo, facciamo bene a indignarci, però con la stessa verità siamo chiamati a riconoscere quante volte ci siamo cascati anche noi. Quando? Quando anziché prestare un servizio gratuito alla comunità, ne abbiamo preteso un ritorno: foss’anche d’immagine (essere riconosciuti indispensabili), di gratitudine (pretendere una risposta dall’altro) e non raramente anche economica (e su questa si aprono le pagini tristi di chi mette le mani nei cestini delle offerte).
Ma non solo. Ci attiriamo l’impeto di Gesù quando facciamo della casa di Dio un mercato: un luogo dove emergere, dove pretendere di essere migliori, dove maltrattiamo la sacralità del posto con schiamazzi, chiacchiericcio ecc. Ci attiriamo il furore di Gesù quando facciamo della nostra relazione col Padre una questione d’affari: gli offro un tot di novene, in cambio lui deve darmi la grazia che pretendo.
Non raramente per la nostra pusillanimità, finiamo anche noi per barattare la nostra fede, per una situazione di comodo, quando scendiamo a compromessi col peccato o con situazioni di ingiustizia sociale. Mercanteggiamo la nostra fede, quando abbiamo paura di dirci cristiani nei contesti della nostra società, perché questo imporrebbe l’essere insultati o emarginati.
«Ma egli parlava del tempio del suo corpo»
Nella successiva polemica con i rappresentati religiosi lì presenti alla cacciata dei mercanti, Gesù rivela che il luogo d’incontro dell’uomo con Dio è proprio l’uomo stesso, per quanto non venga negata l’importanza del tempio per facilitare questo incontro.
Il rabbì di Nazareth, svilupperà ulteriormente questo tema, quando, mettendosi in cammino, giungerà a una cittadina, Sicar, appartenente alla regione di Samaria (per i rapporti conflittuali tra israeliti e samaritani rimandiamo al nostro articolo: “Cosa fare quando la vita ti chiude le porte in faccia?“), lì alla donna che identifica nel tempio sul monte Garizim il loro luogo per l’incontro con Dio, rivela:
“Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità” (Gv 4,21-24).
L’essere tempio vivente di Dio, è anche una delle grandi intuizioni di Santa Teresa d’Ávila. Ella, commentando la preghiera del Padre Nostro, nella sua opera diretta alle consorelle, “Cammino di perfezione”, invita a riconoscere che il cielo in cui risiede Dio è proprio la nostra anima. Afferma:
Le persone che sapranno rinchiudersi in questo piccolo cielo della loro anima, dove abita colui che l’ha creata e che pure creò la terra, e abituarsi a non volgere lo sguardo né a soffermarsi su ciò che può distrarre i loro sensi esteriori, seguono, credano pure, un cammino sicuro: non mancheranno di giungere a bere l’acqua della fonte e faranno molta strada in poco tempo. È come chi, andando per nave, con un po’ di buon vento, giunge al termine del viaggio in pochi giorni, mentre quelli che vanno per terra impiegano molto di più.
Teresa d’Avila, Cammino di perfezione, 38.5
L’invito che soggiace è quello di prenderci cura della nostra vita interiore, della nostra anima, attraverso un metodo di preghiera che diventa affettivo, continuo e, potremmo dire, performante: dove l’anima via via si occupa sempre più delle cose che sono gradite a Dio e a lui, pian piano, si conforma, somigliandogli.
«i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero»
Il brano si conclude con un fare memoria da parte dei discepoli. Questo sarà loro concesso, dopo la passione, morte e risurrezione del Maestro, quando al soffiare lo Spirito Santo, primo dono ai credente, potranno comprendere tutti i suoi gesti e le sue parole, ricordandosene. Grazie a questo loro dinamismo di memoria e vita, poterono non solo santificarsi, ma dare il via alla comunità dei redenti.
Imparando da loro, anche noi oggi siamo chiamati ad alimentare una memoria grata, a riconoscere tutti i miracoli e le grazie che ha fatto nella nostra vita, per crescere nella fede e nella consapevolezza che il nostro è un Dio fedele, che non ci abbandona mai.

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