Cos’è che fonda la tua fede?

XVIII domenica del tempo ordinario – anno B

Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35

Cosa ti spinge a credere? Qual è l’evento, l’occasione, la grazia che ha fondato la tua fede? Su cosa si basa essa?
Sono interrogativi che emergono dalla prima lettura e dal Vangelo di questa domenica, in cui tanto il popolo di Israele nel suo esodo, come le folle che seguivano Gesù sono chiamati a discernere, soprattutto dall’atteggiamento divino
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Prima lettura
In quei giorni, nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mose e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine».
Allora il Signore disse a Mose: «Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà à raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno, perché io lo metta alla prova, per vedere se cammina o no secondo la mia legge. Ho inteso la mormorazione degli Israeliti. Parla loro così: “Al tramonto mangerete carne e alla mattina vi sazierete di pane; saprete che io sono il Signore, vostro Dio”».
La sera le quaglie salirono e coprirono l’accampamento; al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra. Gli Israeliti la videro e si dissero l’un l’altro: «Che cos’è?», perché non sapevano che cosa fosse. Mose disse loro: «E il pane che il Signore vi ha dato in cibo».

Contesto
Dopo la morte di Giuseppe, penultimo tra i figli di Giacobbe, che tanto beneficò l’Egitto con la sua politica economica, sorse una nuova generazione di faraoni, che non fecero tesoro della loro stessa storia, ignoranti crassi che non seppero guardarsi indietro con sapienza e gratitudine, ma accecati dall’invidia di un fiorente popolo tra le loro mura, estraneo questo il problema, cominciarono ad opprimerlo con forme di schiavitù sempre più umilianti, fino ad adottare una politica di sterminio, legiferando la morte di ogni neonato maschio.

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Allora il faraone diede quest’ordine a tutto il suo popolo: “Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina” (Es 1,22).

Contro queste macchinazioni di umiliazione e morte si impose il Dio della vita (così si presentò infatti a Mosè), che sceglie il bambino salvato dalle acque del Nilo, ironicamente proprio dalla figlia del faraone, e lo rende condottiero di Israele verso la terra promessa.
Il popolo che fin a quel momento non ha conosciuto che oppressione e umiliazione, viene liberato dalla schiavitù e sperimenta la potenza divina quando lungo il mar Rosso apre per loro una strada perché possano attraversarlo comodamente e all’asciutto.
Israele non ha compiuto che i suoi primi passi nel deserto, verso una terra promessa, santa perché donata da Dio, e tanto prospera che in essa simbolicamente scorrono fiumi di latte e miele, che alla prima difficoltà mormora, si ribella, torna a preferire la schiavitù. E questo per il più futile dei motivi: hanno lo stomaco vuoto! E come se ciò non fosse sufficiente, finisce per dare la colpa a Dio della situazione di umiliazione in Egitto, anziché riconoscere la sua premura e la sua tenerezza quando lo ha salvato da quella condizione.

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L’atteggiamento di Dio
Anche se il discorso degli israeliti è rivolto ai suoi due condottieri, Mosè e Aronne, Dio si sente chiamato in causa. Vogliamo far notare la maniera in cui interviene in questa occasione. Durante l’uscita fuori dall’Egitto, infatti, Dio rivelava la sua presenza attraverso una colonna di nube di giorno e di fuoco la notte. Quando poi nel deserto il popolo erigerà la tenda del convegno, dove Mosè potrà entrare al cospetto di Dio e parlargli faccia a faccia, Dio rivelerà la sua presenza attraverso la stessa colonna di nube che ricoprirà la tenda.

Il Signore marciava alla loro testa di giorno con una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte con una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte. Di giorno la colonna di nube non si ritirava mai dalla vista del popolo, né la colonna di fuoco durante la notte (Es 13,21-22).

Quando Mosè usciva per recarsi alla tenda, tutto il popolo si alzava in piedi, stando ciascuno all’ingresso della sua tenda: seguivano con lo sguardo Mosè, finché non fosse entrato nella tenda. Quando Mosè entrava nella tenda, scendeva la colonna di nube e restava all’ingresso della tenda, e parlava con Mosè. Tutto il popolo vedeva la colonna di nube, che stava all’ingresso della tenda, e tutti si alzavano e si prostravano ciascuno all’ingresso della propria tenda. Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico (Es 33,8-11).

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Cos’ha di diverso questo modo di intervenire di Dio all’interno del brano di oggi? È particolare perché YHWH non rivela la sua presenza attraverso il segno della colonna di nube, ma entra direttamente in causa, come se tra i due “contendenti” impegnati nel colloquio (il popolo, e la coppia di condottieri), lui fosse la terza parte in causa che ascolta in silenzio per poi intervenire senza troppi giri di parole. Questo ci porta ad almeno due provocazioni per noi oggi:

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1a provocazione
Dio è sempre presente nella nostra vita, ma, come abbiamo avuto già modo di dirlo, la sua presenza è sempre discreta, mai ingombrante, non toglie spazio a noi, non ci sorprende con effetti speciali, ma ci rispetta (puoi approfondire questo atteggiamento di Dio nei nostri precedenti articoli: “Dio rifugge l’esibizionismo” e “Il male cerca casa“).
Proprio a motivo di questa sua discrezione, si può comprendere la logica dell’Incarnazione, il suo venire a noi incontro attraverso un volto umano (che è quello di Cristo, certo, ma anche attraverso tutte le altre mediazioni quotidiane). Dio è il presente, non come scrutatore dei nostri più oscuri segreti, ma come il più tenero dei padri che agisce subitaneamente nel confortare i suoi figli e nel provvedere a ciò che loro manca
.
Vivere alla presenza di Dio, è una delle forme più autentiche della preghiera e della spiritualità carmelitana, perché fa in modo che tutta la vita dell’orante diventi preghiera e mantiene integra la sua via camminando nella grazia del Signore. È quello che in un altro nostro articolo abbiamo chiamato “la santità casalinga” (“S. Marta: la santità casalinga“):

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Benché di esperienze di santità che nel Carmelo abbiano preso ad imitazione di S. Marta non mancano, ci limitiamo, per ultimo, a menzionare un’altra figura. Si tratta di un umile fraticello francese di un convento particolarmente numeroso: quello di Parigi. Qui per diversi anni ricoprirà il ruolo di cuoco e calzolaio: compiti che ricopriva con grande dedizione, anche se gli impediva di poter stare davanti al tabernacolo quanto gli sarebbe piaciuto. Egli tuttavia scoprì che avrebbe potuto pregare e adorare il suo Signore anche davanti ai fornelli. Sintesi di tutta la sua dottrina ascetica e mistica fu il permanere alla presenza di Dio, anche tra le tante faccende che il suo officio richiedeva. Così in una lettera ad una fedele scriveva:

“Io rigiro la mia frittata nella mia padella per amore di Dio…Si va alla ricerca di metodi per imparare ad amare Dio…Non è forse più breve…fare tutto per amore di Dio, servirsi di tutte le azioni del proprio stato per dimostrarglielo e conservare la sua presenza in noi con lo scambio tra lui e il nostro cuore?” (Venerabile Lorenzo della Risurrezione)

S. Marta: la santità casalinga
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2a provocazione
La seconda provocazione che emerge per noi dall’atteggiamento di Dio, è il suo pronto intervento. Non sta lì a giudicare l’atteggiamento ribelle e ingrato del popolo, ma subito si propone per dar loro ciò che necessitano, e darlo in abbondanza: pane al mattino e carne alla sera. Benché il cibo sarà abbondante, la razione è solo per quel giorno. Perché? Perché Dio rifugge dall’accaparramento dei beni, e da buon pedagogista insegna agli israeliti a credere in lui e ad avere fiducia nella sua provvidenza, ad attendersi tutto dal suo amore provvido e tenero.
È probabilmente meditando su questo brano che Gesù inserirà la prima richiesta dell’orante a Dio nella preghiera del Padre nostro: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

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L’atteggiamento di Mosè e Aronne
La mormorazione degli israeliti sarà arrivata ai due fratelli come un in atteso pugno allo stomaco e avrà tolto loro il fiato. Sembra che, almeno all’inizio, rispondano col silenzio, perché come abbiamo visto è Dio a intervenire e dirimere la questione. Tuttavia il brano della liturgia della Parola odierna non riporta i preparativi coi quali i due condottieri di Israele preparano il popolo a ricevere il dono tanto atteso. Leggiamo:

Mosè e Aronne dissero a tutti gli Israeliti: “Questa sera saprete che il Signore vi ha fatto uscire dalla terra d’Egitto e domani mattina vedrete la gloria del Signore, poiché egli ha inteso le vostre mormorazioni contro di lui. Noi infatti che cosa siamo, perché mormoriate contro di noi?”. Mosè disse: “Quando il Signore vi darà alla sera la carne da mangiare e alla mattina il pane a sazietà, sarà perché il Signore ha inteso le mormorazioni con le quali mormorate contro di lui. Noi infatti che cosa siamo? Non contro di noi vanno le vostre mormorazioni, ma contro il Signore” (Es 16,6-8).

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Cosa ci dice la reazione di Mosè e Aronne? Il loro atteggiamento è quanto mai interessante perché, benché offesi nel loro ministero di guide di Israele per istituzione divina, rispondono alle offese con quiete e rimandano tutto a Dio: è a lui che hanno ben fisso lo sguardo e il cuore. Tutto rimandano a lui, perché vivono di lui. Rivelano al popolo che quelle mormorazioni contro la qualità del loro essere guide, è una ribellione contro Dio che li ha scelti per questo compito e anche se ricoprono un ruolo di rilievo nella comunità israelitica non si insuperbiscono ne si prendono i meriti di Dio per il prodigio che sta per avverarsi. Guidano il popolo come servi del popolo.
Questo è molto interessante perché ci rivela quale deve essere l’atteggiamento che deve avere chiunque abbia una carica o una responsabilità tanto in ambito civile e ancor di più in ambito ecclesiale. Ogni vocazione divina, è una vocazione al servizio. Dalla qualità del prendersi cura del prossimo, si stabilisce la qualità di un pastore.

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Vangelo

In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbi, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

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Contesto
Il brano del vangelo segue quello di domenica scorsa (per un approfondimento leggi “Il valore del tuo poco“) quando Gesù preso dalla compassione della tanta gente che gli si era radunata attorno, moltiplicò i pani e i pesci per sfamarli. Ora questi tornano a cercarlo, perché nel giro di poco tempo il cibo è stato digerito, lo stomaco si svuota e vogliono fare re colui che ha saziato il loro vero dio: il ventre!

Dalla tenerezza, la conversione
Il titolo di questo paragrafo, proviene da quello che accade alle folle alla reazione di Gesù. Egli sa che loro lo seguono non perché credono che sia il Figlio di Dio e nemmeno per i suoi miracoli, lo seguono perché ha saziato la loro fame. Gesù non ha paura di svelare questa loro ipocrisia, lo fa con carità e unitamente a questo, quale buon maestro a imitazione dell’atteggiamento di Dio nella prima lettura, li esorta a un cambio di prospettiva, a una conversione per godere di una fede più matura.

Come con le folle, come con i farisei, i capi religiosi e civili della sua epoca, Gesù non si scandalizza della grettezza d’animo dei suoi interlocutori, ma indica loro una strada per vivere meglio la loro relazione interpersonale e con Dio. Lo stesso atteggiamento paziente e premuroso adotta nei nostri riguardi: desiderosi di fare grandi cose per lui e per la Chiesa, ma poi finiamo per ripetere sempre gli stessi stupidi peccati.
Dall’atteggiamento di Gesù ne consegue la reazione della folla che decide di cambiare stile di vita, convertirsi:

«Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?»

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Trascendersi
È questa la parola chiave di Gesù, questo l’invito per la gente che lo seguiva e per tutti noi. Con queste battute, infatti, si conclude il brano evangelico odierno:

Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».

C’è una cosa che accomuna tanto il popolo di Israele secondo quanto raccontato nella prima lettura, e la folla alla ricerca di Gesù: credono nella misura in cui viene loro riempito lo stomaco. Talvolta anche noi facciamo della nostra pancia il centro del mondo, una necessità tanto impellente che mette da parte relazioni e doveri nei confronti degli altri. Il problema del cibo è per molte casalinghe il primo pensiero al mattino, e per molti uomini la prima richiesta al rientrare in casa dopo il lavoro: «Cosa si mangia oggi?». Il resto viene dopo: sia esso la tenerezza famigliare, che i doveri verso Dio.
Guardando dunque il popolo di Israele e la folla attorno a Gesù, dobbiamo riconoscere che spesso ci comportiamo proprio come loro: non abbiamo capito niente! Come se Dio ci avesse deluso qualche volta, come se non fosse stato provvido, come se non potesse darci molto di più di quello che miseramente pretendiamo.
Lo abbiamo affermato in uno dei nostri primi articolo, “Dalla pancia al cielo“, e riteniamo utile ripeterlo:

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Ecco allora il senso di questo articolo, ecco la provocazione di Gesù per noi oggi: dalla pancia al cielo. È quello che Gesù in diverse circostanze ripete costantemente a tutti i suoi uditori: andare oltre, essere uomini e donne “dell’oltre”, che riconoscono che la nostra vera vita inizia con la morte e che è per l’eternità che dobbiamo accumulare tesori e non per questa vita.

Dalla pancia al cielo
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Di cosa siamo davvero affamati?
Tutti siamo alla ricerca di qualcosa che ci manca e di cui abbiamo assolutamente bisogno per sentirci bene e appagati. Gli israeliti sono alla ricerca di qualcosa che possa riempire il loro stomaco e per cercarlo non hanno paura di puntare i piedi e aizzarsi contro i suoi condottieri e contro Dio. La folla del Vangelo ha trovato nella figura di Gesù colui che può creare il cibo dal poco condiviso e donarlo in abbondanza a tutti, e non vogliono che si allontani da loro, tanto che lo vanno a cercare.
E io? Di cosa sono affamato? Di cosa sono alla ricerca? E come mi comporto davanti ad essa? Talvolta si è alla ricerca di amore, ma lo si cerca nel modo sbagliato, più svilente possibile, talaltre di sicurezze e lo si cerca nel denaro, nella giovinezza ad ogni costo, nella carriera. Sono cose buone, doni certamente della provvidenza divina, ma non sono il Tutto. Se essi non diventano strumenti di un auto trascendimento, di una possibilità di giungere a Colui dal quale ogni cosa proviene, allora la nostra è solo una idolatria. Veneriamo altro e non certamente Dio.

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Gesù si rivela alle folle la sua identità di unica fonte di sostentamento che può davvero dare sazietà alla vita dei suoi ascoltatori. Più del pane materiale Gesù invita ad aver fame di un pane spirituale, della sua persona. Egli rimanda a quel suo corpo che viene sacramentalmente celebrato su tutti gli altari delle Chiese. In maniera del tutto eccezionale, la Chiesa cattolica conosce figure di mistici che si sono alimentati per un certo periodo di sola eucaristia. Risuonano forte ancora oggi le parole dei martiri di Abitene, che non possono che metterci in crisi e rinnovare il nostro entusiasmo per il pane eucaristico:

Senza la domenica non possiamo vivere

Martiri di Abitene
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Conclusione
In conclusione, dunque, la domanda alla quale oggi siamo chiamati a dare una risposta per verificare la qualità della nostra fede, del nostro discepolato, è questa: cosa fonda la tua fede? Se la nostra fede si basa unicamente su ciò che abbiamo ricevuto, su una grazia, un miracolo, un segno nel cielo al quale abbiamo assistito, allora è davvero poca cosa. La fede del cristiano non è fede in qualcosa, ma in Qualcuno. Se ciò che suscita la nostra fede non è un incontro trasformante con Cristo che ci spinge a farci sempre più simili a lui, allora la nostra non è fede, perché essa già per la parola stessa implica fiducia, e questa la si dà a qualcuno non a qualcosa.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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