Cosa fare quando ci troviamo di fronte a tanto dolore?

XIII domenica del tempo ordinario – anno B

Sap 1,13-15; 2,23-24; Sal 29; 2 Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43

La liturgia della Parola di questa domenica sembra sfatare il mito di un Dio crudele, che impone croci pesantissime sulle spalle dei suoi fedeli e li mette alla prova con sofferenze indicibili. Un Dio capace di morte, che si priva le famiglie dei loro affetti più cari. In realtà il nostro è il Dio della tenerezza, dell’amore gratuito e misericordioso, della vita.

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Prima lettura

Dio non ha creato la morte
e non gode per la rovina dei viventi.
Egli infatti ha creato tutte le cose perché esistano;
le creature del mondo sono portatrici di salvezza,
in esse non c’è veleno di morte,
né il regno dei morti è sulla terra.
La giustizia infatti è immortale.
Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità,
lo ha fatto immagine della propria natura.
Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono
.

La prima lettura si apre con una verità forte tesa a smitizzare l’idea di un Dio più simile a quelli pagani: volubili ed irascibili. Rimontando all’atto della Creazione, l’autore del libro della Sapienza, ricorda bene che Dio mosso dal suo traboccante amore (incapace di stare chiuso all’interno della sua deità), non fu cosa che creò che non fosse buona. È interessante l’uso di questo vocabolo, ṭō·wḇ, perché nel lessico ebraico antico ha una grande varietà di significati a cui rimanda: grazia, bellezza, amore, salute e prosperità, funzionalità. Ciò che Dio ha creato è buono perché è un suo dono d’amore (grazia), in essa ha imposto la sua impronta (bellezza), serve a migliorare la vita dell’uomo (prosperità e funzionalità). Per questo tutto ciò che non è ṭō·wḇ, non può provenire da lui. Per questo l’autore del libro della Sapienza afferma ancora:

Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo
e ne fanno esperienza coloro che le appartengono.

Solo chi comprende che da Dio proviene solo il bene e che quanto ha creato é ṭō·wḇ, allora può giungere a un’altra verità fondamentale:

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Le creature del mondo sono portatrici di salvezza

Di quali creature si sta parlando? Certamente l’autore sacro si sta riferendo al mondo naturale, esso reca impresso un impronta della mano di Dio quando dal nulla l’ha creato, ma a maggior ragione la creatura umana che è immagine e somiglianza del suo Creatore.

È un’affermazione forte a cui spesso, soprattutto negli ambienti ecclesiali, purtroppo, si fa fatica a credere. Tutti siamo capaci di una salvezza che prima di essere solo per noi, implica una nostra donazione al fratello. Creati per un eccesso d’amore divino, non possiamo non donarci al prossimo. E questo vale per noi come invito a spenderci per il fratello, ad accogliere la nostra vocazione di collaboratori di Cristo nell’opera redentrice dell’umanità, ma vale, soprattutto, nel riconoscere nell’altro l’immensa dignità con il quale Dio l’ha rivestito. Se l’altro è un dono di Dio, portatore di un suo messaggio salvifico per la mia vita: come posso eliminarlo dalla mia vista, ignorarlo o persino odiarlo?

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Vangelo

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Due personaggi a confronto

Il vangelo ci presenta due personaggi in situazioni drammatiche e votate alla morte e che in qualche modo, quasi simultaneamente, ricorrono a Gesù, attratti dalla sua figura sì, ma soprattutto spinti dalla loro fede e che hanno qualcosa di molto importante da dire a noi cristiani del III millennio. Storie di sofferenza che si intrecciano, che fanno quasi a spintoni per chi possa arrivare prima a Gesù e godere della sua azione guaritrice. Ed è interessante perché ci fa capire che lì dove per l’uomo non c’è che morte e vicoli ciechi, per il Figlio di Dio tutto è possibile.

Questo vale tanto per la donna emorroissa che anziché aver goduto delle cure dei medici è peggiorata, che per Giàiro la cui figlia se prima era estremamente grave, alla fine raggiunge quello che ormai tutti chiamiamo come il punto di non ritorno: la morte. Sembra anzi che dopo l’intervento dell’emorroissa Gesù cerchi volontariamente di perdere tempo, quasi non prenda sul serio la gravità dello stato di salute della figlia di Giàiro, non facendo caso nemmeno alle parole dei discepoli che lo invitano a soprassedere circa chi abbia toccato il lembo del suo mantello.

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo.

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Perché Gesù prende tempo? Perché non interviene in tutta fretta per rimediare alla salute della bambina? Se da un lato è comprensibile come a livello narrativo la storia funzioni perché la suspense aumenti e il lettore stia lì a chiedersi se Gesù farà in tempo a salvare la piccola, dall’altra dobbiamo cogliere un’annotazione non meno importante. Per Gesù non ci sono uomini che soffrono più di altri, o che a motivo della loro classe sociale meritino un occhio di riguardo e vadano serviti per una corsia preferenziale. È qui che si situa la differenza tra i due personaggi, perché se Giàiro è un membro di spicco nell’ambito socio religioso di Cafarnao, l’emorroissa non è che una donna, per di più senza nome e per di più impura perché il contatto con il sangue, anche il proprio, per la religiosità ebraica implicava l’impurità religiosa, con tutto ciò che essa comportava: allontanamento dalla vita religiosa e sociale dell’epoca.

Per Gesù ogni sofferenza è urgente e necessitante della sua massima attenzione. Non c’è lacrima che non sia degna di essere asciugata, o grido che debba restare inascoltato. Di fronte a una necessità, Gesù non sta a calcolare il prestigio del richiedente, non ama le raccomandazioni, ognuno diventa la sua urgenza, la sua priorità.

È quello che accade all’emorroissa. Sapeva che in quanto donna era in qualche modo costretta ad avere un ruolo secondario nella società, ma la sua condizione la costringeva anche a una sorta di allontanamento sociale e religioso: considerata una scomunicata agli occhi dei benpensanti. Eppure, ben sapendo che non avrebbe dovuto nemmeno lontanamente approcciarsi a Gesù, e men che meno toccarlo (perché lo avrebbe reso impuro a sua volta), osa. E le va bene. Il suo intuito, la sua sofferenza, l’avevano resa non solo intrepida ma anche piena di fiducia verso il Nazareno. E poiché Dio ci dona sempre molto di più di quello che gli chiediamo, la donna non ottiene solo la guarigione fisica, ma anche la salvezza eterna.

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Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».

Se da un lato abbiamo l’esuberanza fiduciosa di questa donna, dall’altra abbiamo la mite umiltà di una delle persone più importanti di tutta Cafarnao: Giàiro, una delle guide spirituali di tutta Cafarnao. Un uomo che, a motivo del suo stato sociale, tutto avrebbe dovuto fare tranne che prostrarsi ai piedi di colui che i suoi superiori di Gerusalemme ritenevano essere un mistificatore, un imbroglione e un delinquente da fermare a tutti i costi. Il suo è un atto di fede grande e coraggioso, non ha paura di farsi giudicare e perdere la credibilità di fronte agli uomini della sua città. Resta silenzioso e paziente quando Gesù sembra prendersela comoda con una perfetta sconosciuta, obbediente al Maestro mantiene salda la sua fede quando sembra che ormai sia troppo tardi. Anche lui potrà godere dell’opera guaritrice di Gesù e farà esperienza di come Dio non voglia la morte e la sofferenza degli uomini, ma che al contrario li proietta in una prospettiva di vita e di risurrezione.

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DUE ESEMPI DA IMITARE
Cosa ci insegnano l’emorroissa e Giairo? Certamente ci indicano il giusto atteggiamento di fronte alla sofferenza. Non raramente si sente dire da alcuni cristiani che sia stato il Signore a imporre loro quelle sofferenze o a prendersi un loro caro. Altre volte si ha la pretesa che di fronte a una malattia Dio debba obbligarsi a intervenire facendo la nostra volontà. Quanto siamo lontani dalla verità di Dio! Quanto siamo lontani dal Vangelo, dalla vera fede!
La sofferenza resta sempre un mistero, ma per quanto incomprensibile esso può diventare luogo di una rivelazione divina, proprio come è accaduto ai personaggi del Vangelo. Hanno dovuto toccare il fondo del loro dolore: la donna soffriva da diversi anni e i medici non hanno fatto che rovinarla maggiormente, e Giairo dovrà toccare sperimentare il sonno della morte di sua figlia, per poi vederla rivivere.
I due personaggi ci offrono un modo diverso di approcciarci alla sofferenza e alla morte, un modo diverso di rivolgerci a Dio in quei momenti, ma soprattutto ci rivelano che Dio non resta indifferente al dolore, ma al momento opportuno interverrà.

SAPER SOFFRIRE CRISTIANAMENTE
La Chiesa da sempre afferma che il cristiano portando la sua croce ogni giorno e offrendo il suo dolore a Dio per la conversione dei peccatori, può assimilarsi a Cristo che sul suo patibolo morì anche per i suoi uccisori, abilitandoli alla salvezza eterna. La Penitenzieria apostolica codifica persino un’indulgenza parziale in merito:

Si concede l’indulgenza parziale al fedele che, nel compiere i suoi doveri e nel sopportare le avversità della vita, innalza con umile fiducia l’animo a Dio, aggiungendo, anche solo mentalmente, una pia invocazione

Penitenzieria Apostolica, Manuale delle indulgenze, p. 35.

Dopotutto, si tratta di applicare alla propria vita non solo l’atteggiamento dei due personaggi del Vangelo di questa domenica, ma anche l’esortazione di S. Paolo nella lettera ai Romani:

Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera (Rm 12,12).

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E adesso?

Di fronte a questo atteggiamento di Gesù, a questa ricchezza di fiducia e gioia che la Chiesa ci offre, come cambiare da oggi la nostra vita? Sicuramente il primo atteggiamento che da oggi dobbiamo fare nostro è la gratitudine. Ma non meno importante è la premura verso i tanti nostri fratelli e sorelle che sono nel dolore, essere per loro causa di consolazione e, con la nostra testimonianza, riaccendere nel loro cuore la fede e la speranza.

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Il lembo del mantello

Abbiamo volutamente lasciata questa riflessione per ultima, perché la riteniamo particolarmente utile e attuale per la nostra Messa domenicale. Alla emorroissa bastò, a motivo della sua grande fede, bastò toccare una minima parte della stoffa del mantello di Gesù per essere guarita. Guardando lei forse molti di noi avrebbero voluto fare la stessa esperienza: godere di questo momento di particolare prossimità col Maestro. Eppure noi cristiani siamo molto più fortunati e spesso per la nostra non-curanza, pressapochismo o semplicemente per la nostra poca fede, non ci rendiamo conto che noi non tocchiamo semplicemente la stoffa che copre il corpo di Cristo, ma tocchiamo, anzi mangiamo il suo corpo, lo accogliamo dentro di noi.

Ritroviamo lo slancio di quella donna, riconosciamoci impuri davanti al Signore, necessitanti del suo perdono, di essere risanati da Lui, e accostiamoci con tremore e devozione al Sacramento dell’Altare.

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Pubblicato da P. Francesco M.

Conseguito il Baccellierato in Sacra Teologia presso la Pontificia Università Lateranense col grado accademico di Summa cum Laude, ha ricoperto il ruolo di capo redattore della rivista Vita Carmelitana e responsabile dei contenuti del sito Vitacarmelitana.org. Si è occupato della pastorale giovanile di diverse comunità carmelitane, collaborando anche con la diocesi di Oppido-Mamertina Palmi di cui è stato membro dell'équipe per la pastorale giovanile diocesana e penitenziere. Parroco della parrocchia SS. Crocifisso di Taranto e Superiore del Santuario Maria SS.ma del monte Carmelo di Palmi, si è impegnato per la promozione della formazione del laicato promuovendo incontri di formazione biblica e spirituale. Collabora con l'Archivio Generale dell'Ordine Carmelitano e con il Centro studi Rosa Maria Serio, offrendo supporto per il materiale multimediale. Attualmente è Rettore del Santuario diocesano S. Angelo martire, di Licata (AG)

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