In quel tempo, i discepoli [di Emmaus] riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane. Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. Poi disse: «Sono queste le parole che vi dicevo quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni» (Lc 24,35-48).
LA PRASSI DEL RISORTO
Il titolo di questo articolo proviene dall’esperienza dei discepoli al vedere per la prima volta il Cristo Risorto presentarsi dinanzi a loro mentre erano chiusi nella loro casa. Ci troviamo nel Vangelo di Luca, subito dopo di ciò che vissero i discepoli diretti ad Emmaus.
La Risurrezione di Cristo non resta un’esperienza che riguarda solo lui, la sua relazione col Padre, la sua persona, tutt’altro. Essa coinvolge personalmente i discepoli nella loro singolarità, ma soprattutto, come comunità. Il Risorto, infatti, tranne che lo sporadico caso della rivelazione a Maria Maddalena, secondo la narrazione dell’evangelista Giovanni (Cfr Gv 20,11-18; vedi link in basso), non si rivela a dei singoli ma a una comunità, a una fraternità riunita nel suo nome, per quanto poi si trovi carente nella fede.
Lo abbiamo visto nella narrazione evangelica di ieri (Cfr. Lc 24,13-35; vedi link in basso) e in quello odierno. Il cristiano che si approccia a questi testi evangelici, ben facilmente potrà rendersi conto come non ci si trovi dinanzi ad eccezioni, o racconti legati esplicitamente a un evangelista, ma, al contrario, è un modus operandi scelto dal Risorto e riportato da tutti gli evangelisti.

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IL PRIMO DONO AI CREDENTI
Gesù irrompe sulla scena proprio nel momento in cui quei discepoli di ritorno da Emmaus condividono la loro esperienza, il loro incontro col Risorto. Lui che allo spezzare del pane era scomparso agli occhi dei due, che finalmente lo avevano riconosciuto, ecco che ora si mostra a tutti per fare loro il primo dono, la primizia, della risurrezione: la pace. Si presenta ai discepoli mostrando loro i segni della sua passione, qualcosa che resterà impressa nella sua persona ultraterrena, ma saranno comunque cicatrici glorificate: segni di un amore così grande da rivelare la folle passione di Dio per l’umanità. Un amore, però, che da questo momento in poi i discepoli sono chiamati ad imitare nel prossimo.
La glorificazione delle cicatrici, segni di un martirio indegno, indecente e immeritato, unitamente al dono della pace rivolto a coloro che non l’hanno, e probabilmente anche non la meriterebbero visto la loro magra figura nel momento della passione, sortiscono per noi cristiani una provocazione particolarmente importante tesa a fare chiarezza sulla nostra vita comunitaria.
Donare pace a chi ci ha ferito non è un atteggiamento facoltativo del credente in Cristo, ma un dovere, perché prima di tutto e prima di tutti, quella pace l’abbiamo ottenuta dal Signore Risorto che per noi si è fatto inchiodare al legno della croce. Lo abbiamo poi affrontato in un nostro precedente articolo: perdonare non è far finta che nulla sia successo, ma appunto glorificare le ferite, i tradimenti, i colpi bassi (vedi approfondimento raggiungibile al link in basso).

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Non dobbiamo poi trascurare un evento importante, il modo in cui Gesù manifesta ai discepoli. Quando accade? Solo quando la comunità torna a riunirsi. Quando, cioè, i discepoli dissidenti che erano diretti a Emmaus, tornano indietro. La modalità dell’apparizione, non è meno importante. Rileggiamo:
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona apparve in mezzo a loro
La condizione perché Cristo si riveli alla comunità riunita è la condivisione, il dialogo, l’espressione gioiosa dello stare insieme, anche se per un breve momento si erano divisi, allontanati. Solo questo permette al Risorto di fare presente «in mezzo a loro», non di lato, non poco più in là, neanche vicino alla porta. Ma esattamente nel mezzo. Gesù si rivela presente perché essi, i discepoli, lo hanno rivelato tale nella misura in cui hanno riscoperto la gioia dello stare insieme.
Dalla pace comunionale riscoperta dal ritorno dei due discepoli di Emmaus, sorge come dono un’altra pace, più intima, profonda, spirituale. È il primo dono del Risorto ai credenti:
e disse: «Pace a voi!».
PERCHÈ PROPRIO QUESTO DONO E NON UN ALTRO?
Gesù non dona ai discepoli la forza e il potere di convincere gli altri, né di costringere il mondo a credere alla loro predicazione. Gesù dona la pace: è ciò che è alla base di ogni altro dono. Dalla pace nel cuore verrà il coraggio e l’entusiasmo degli Apostoli di predicare ad ogni costo. Dalla pace proviene la loro gioia e la loro speranza. Gli uomini di ogni tempo sono alla ricerca della vera pace nel cuore, ma riescono a raggiungerla solo coloro che hanno imparato ad abbandonarsi a Dio, a lasciarsi condurre da lui e a fare la sua volontà. Domandiamoci quindi: quando, dove e in chi troviamo la nostra pace? La riconosco come un dono? Cosa ne faccio? Ne divento promotore per i miei fratelli e il mio prossimo?
LE IMPLICAZIONE DI UNA PACE CRISTICA
Quel Gesù che aveva rimesso in moto il cuore indurito dei discepoli di Emmaus, che li aveva riaperti alla fede, guarendoli dalla cecità della sfiducia e della tristezza, ecco che ora dona la pace. E ogni dono di Gesù risorto, ogni dono di Dio, non resta mai fermo e isolato in un contesto o circoscritto a un piccolo gruppo di prescelti. Al contrario, ciò che Cristo dona agli Apostoli è ciò che essi, a loro volta, devono donare agli altri. Ecco come il saluto, pace a voi, diventa il saluto del cristiano. È il saluto di Paolo e di Pietro che scrivono alle comunità da loro fondate (Cfr. Rm 1,7; 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3; Ef 1,2; Fil 1,2; Col 1,2; 1Ts 1,2; Fm 3; 1Pt 1,2; 2Pt 1,2); è il saluto che Giovanni, autore di Apocalisse, fa a tutte le Chiese dell’Asia (Cfr. Ap 1,4). La Chiesa di tutti i tempi, accoglie questo dono di Dio e in diversi tempi e modalità lo offre all’assemblea presente durante le liturgie, fino a diventare una forte esortazione all’interno dei riti di comunione durante la celebrazione della S. Messa.
Potremmo dunque dire che c’è una forte connessione e consequenzialità tra la gioia e la pace. L’una richiama l’altra ed entrambe si realizzano nell’uomo a condizione che questi diventi di esse veicolo e promotore.
TROPPO BELLO PER ESSERE VERO
La reazione dei discepoli di fronte al presentarsi del Risorto, poi, è alquanto interessante. Rileggiamo:
Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma.
Se i discepoli, mentre erano in viaggio verso Emmaus, non riconobbero il Risorto (accecati dall’incredulità), ora che essi hanno condiviso la loro gioia, proprio per essa, agli altri discepoli, sembra che chi abbiano di fronte non sia Cristo, ma frutto di una allucinazione. Per loro sembra troppo bello per essere per vero. La gioia condivisa dai due di Emmaus ha consentito il primo cambio di mentalità degli Apostoli, ha tolto dai loro occhi il primo velo di una cecità che è simbolo dell’incredulità, della mancanza di fede.
IMPARARE AD ESSERE UOMINI DALLA MENTE E DAL CUORE APERTO
Nella seconda parte del brano evangelico, dopo che i discepoli hanno compreso che chi hanno davanti non è frutto di una allucinazione per proprio Gesù Risorto, che mostra i segni della sua passione e condivide la mensa con loro, ad essi viene rivelato il mistero della sua persona e il contenuto della predicazione che dovranno divulgare in tutta la terra: la conversione e il perdono dei peccati. Si tratta cioè di un radicale cambiamento di vita nell’adesione alla persona di Cristo, riconoscendolo come il Figlio di Dio, il Messia-liberatore atteso da Israele. È a partire da questa presa di coscienza, che viene concessa la remissione dei peccati. È interessante questo, perché ci rivela che non ci si dona da soli la salvezza, né Dio dona la salvezza a dei singoli, ma a un popolo costituito in comunità.
Tutti nella nostra vita, in diversi tempi e modi, abbiamo avuto bisogno di qualcuno che ci parlasse di Cristo, tutti abbiamo avuto qualcuno che ci ha aiutato nel cammino di fede. Allo stesso modo, potremo permanere nella via della salvezza solo nella misura in cui ci riconosciamo soggetti indegni di un’opera di misericordia che da Dio ci è arrivata attraverso mediazioni: dalla morte di Cristo ai discepoli, dalla Chiesa alla comunità, alle singole persone che ci hanno teso una mano per sostenerci nel cammino. Da Cristo, al Vangelo alla Chiesa. Sono le tre tappe, i tre snodi, imprescindibili senza delle quali non si può giungere ad una salvezza che non sia solo una mera allucinazione, frutto di ragionamenti umani, ma la certezza della volontà di Dio espressa nelle parole di Gesù ai discepoli.
GLORIFICARE LE FERITE
A conclusione di questo approfondimento biblico, vogliamo lanciare ai nostri lettori una provocazione: perché Gesù appare ai discepoli con una imperfezione su quella pelle venerabile, santa e glorificata?
Ma egli disse: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.
Le stimmate sono il segno della violenza su quel corpo innocente, sono il segno della vergogna e dell’umiliazione subita. Perché il fulgore della risurrezione che ha riportato in vita un corpo esanime, abilitandolo per l’eternità, non le ha cancellate? Vediamolo insieme. Che significato ha tutto questo? Cosa ha voluto comunicare Gesù quando le ha messo ben in mostra ai suoi discepoli perché credessero nella Risurrezione?
Ci sono segni indelebili che nella nostra vita non andranno mai via. Il male gratuito e crudele degli uomini, resta impresso nella nostra carne e in quella di tanti nostri fratelli. E molto spesso, i segni che più fanno male, sono quelli che non si vedono: gli abbandoni, le umiliazioni, i maltrattamenti, i tradimenti. Cicatrici che, fisiche o morali, restano impresse, sulla nostra carne o sulla nostra anima, e non andranno più via. Esse che possono che rievocare, ogni santo giorno e ogni santa notte, alla nostra memoria quello che abbiamo subito. Cosa farne? Come trattarle?
Gesù non le ha eliminate dal suo corpo glorioso, dopotutto erano i segni della grande umiliazione, di chi lo ha costretto ad una morte tanto crudele quanto infamante. Quei segni restano lì impressi ed egli li mostra ai suoi discepoli per comunicare qualcosa: il perdono! Luca stesso ricorda quelle parole di Gesù inchiodato alla croce:
Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte (Lc 23,33-34).
Questo richiamo alla misericordia, il Figlio di Dio, quale unico nostro avvocato presso il Padre, lo ripete ogni giorno per ogni uomo che decide di tornare a lui nella Chiesa. L’atteggiamento di Gesù, che non ha vergogna di mostrare i segni delle ferite, ci insegna che anche noi non dobbiamo aver paura di mostrare le nostre cicatrici, i nostri punti deboli, le nostre fragilità. L’invito è quello di non farci incattivire da esse, ma di renderle gloriose a imitazione del Risorto, fare in modo che esse diventino un richiamo visibile a quell’invito alla misericordia di Gesù:
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso (Lc 6,36).
Un uomo che vive nella paura di poter essere ferito dall’altro, è un uomo che già ha smesso di vivere. L’isolamento dall’altro, il porre delle barriere, dei limiti, non è mai la risposta. L’autopreservazione non ci darà mai ciò che ci serve, non ci garantirà mai la preclusione da ogni patimento, al contrario essa condanna all’agonia, alla morte lenta e tormentosa, della solitudine e del sospetto. Non glorificare le nostre ferite, significa farle andare in putrefazione, renderle infette, in necrosi. E in quanto tali saranno ancora più dolorose. Al contrario, bisogna riconoscere che una ferita può davvero sanare se la si lascia libera, al vento. Solo se orgogliosamente rivelata al mondo, essa si richiude e non si infetta.
Fame della Parola di Dio?
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