Venerdì santo

Il brano della Passione di Gesù che nella liturgia di oggi ci offre è tratto dal Vangelo di Giovanni e abbraccia due interi capitoli (18,1-19,42).
Nelle ultime settimane abbiamo seguito Gesù nei suoi spostamenti predicando di città in città, lo abbiamo convertire i cuori, guarire e attrarre tanta folla al suo seguito, e soprattutto scontrarsi con con il potere politico e religioso del suo tempo. Con lui, festanti, siamo entrati in Gerusalemme la scorsa domenica e, dopo l’ultimo atto d’amore per i suoi discepoli, con la lavanda dei piedi, ora lo vediamo affrontare la vergogna della croce: il suo fallimento
Col senno di poi al vederlo umiliato, sofferente e mezzo nudo, esposto al pubblico ludibrio potremmo pure dire: «Ma chi te l’ha fatta fare?». Perché diciamolo, a noi i fallimenti non piacciono, noi ricerchiamo solo consensi e applausi, cerchiamo consensi e like sui social networks, e chi vuole smorzare il nostro entusiasmo lo eliminiamo, lo tagliamo dai contatti. Ma proprio per questo Gesù era venuto: rivelare le ipocrisie della sua epoca e per «amare sino alla fine» (Gv 13,1).
Il suo atteggiamento è per noi una forte provocazione, non può non mettere in crisi il nostro discepolato, la nostra fede e tutta la qualità e la credibilità della nostra vita cristiana. Gesù ha fatto davvero sul serio con noi e mantenuto tutte le sue promesse. Il Messia di Nazareth non era uno che predicava bene e razzolava così così. Non cercava i consensi delle folle né l’emergere prepotentemente in una società ottusa e ipocrita. Al contrario con la sua morte, ha offerto un’opportunità di salvezza anche per i suoi crocifissori. Se il Figlio di Dio ha fatto sul serio con noi, come non possiamo pretendere di fare lo stesso con lui. Come non rivedere il nostro percorso di fede e discernere se abbia più il sapore di Cristo o quello dei farisei?
Ma non solo. Gesù che affronta la croce è per noi un invito a non scoraggiarci di fronte i nostri fallimenti, a non gettare la spugna di fronte le prove della vita, ad accogliere la nostra croce che è condizione per essere suoi veri discepoli (Cfr. Mt 10,38; 16,24) riconoscendola, però, come la porta stretta che conduce alla gioia della risurrezione.
In tutte le nostre chiese in questo Venerdì santo, ci sarà la possibilità di fare un atto di adorazione alla croce di Cristo. È un gesto che ci ricorda che noi su quella croce possiamo morirci schiacciati, oppressi e ribelli, oppure accoglierla e renderla gloriosa quale strumento di redenzione per noi e per il nostro prossimo a imitazione di quel Maestro che ha rubato il nostro cuore. E in effetti la dimensione affettiva della croce di Cristo e del gesto di adorazione che compiremo è davvero molto importante. Affermava, infatti, il vescovo Mariano Magrassi parlando del mimetismo dell’amore:
«Quando si ama è un bisogno diventare simili alla persona amata […] da tutto l’essere si sprigiona questo slancio verso la persona amata, e si finisce per imitarla quasi senza avvertirlo» (M. Magrassi, Afferrati da Cristo, La Scala, Noci (BA) [1977], p. 58-59).
Da questa prospettiva si comprende come l’adorazione della croce non è un mero gesto distaccato, un compiangersi per le sofferenze di Cristo. Al contrario, è un atto di adesione alla sua missione salvifica, un bacio nuziale a quello sposo della nostra anima che desideriamo imitare “fino alla fine”, fino all’ultimo. Anche San Paolo nella lettera agli Efesini affronta il tema della morte in croce di Cristo in una dimensione sposale che ogni cristiano è chiamato ad imitare (Cfr. Ef 5,25-26). Morendo su quella croce il Signore ci ha “sposati” a sé: sposiamo anche noi la sua causa, in questo giorno solenne che è memoriale di questa alleanza nuziale.
È interessante, e concludiamo l’articolo con questa citazione, quello che capita a Santa Teresa d’Avila durante uno dei suoi rapimenti mistici. Lei che desiderava tanto essere sposa del Figlio di Dio, questi alla fine le appare in visione e come anello di nozze le dà un chiodo della sua croce:
Il secondo anno del mio priorato all’Incarnazione, il giorno dell’ottava di S. Martino, mentre mi accostavo alla comunione, il P. fr. Giovanni della Croce, stando per comunicarmi, divise in due la sacra ostia per farne parte a un’altra sorella. Mi venne subito da pensare che ciò facesse non per mancanza di particole ma per mortificarmi, perché gli avevo detto che gradivo molto le ostie grandi, quantunque sapessi che ciò non importa, perché il Signore è tutto intero anche in una minima particella. Ed ecco che Sua Maestà, volendomi far comprendere che ciò appunto non importa, mi disse queste parole: “Non aver paura, figliuola! Nessuno ti potrà separare da me!”. Poi mi si rappresentò nel più intimo dell’anima per via di visione immaginaria, come già altre volte, mi porse la destra e mi disse: “Guarda questo chiodo: è segno che da oggi in poi tu sarai mia sposa. Finora questa grazia non l’avevi meritata; ma d’ora innanzi tu avrai cura del mio onore non solo perché sono tuo Dio, tuo Re e tuo Creatore, ma anche perché tu sei mia vera sposa. Il mio onore è tuo, e il tuo è mio”. Ne ebbi tanta impressione che rimasi come fuori di me; e presa da una specie di delirio supplicai il Signore o di trasformare la mia miseria o di non concedermi più tante grazie, per sembrarmi che la mia natura non le potesse sostenere. E rimasi assorta tutto il giorno. In seguito mi sono sentita con grandi vantaggi e con maggior confusione e dolore nel constatare di non saper rispondere in nulla a così grandi favori (Teresa d’Avila, Rivelazioni, n. 35).

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