Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia,
mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.
Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Salmo 23)
Il Salmo è una fervida preghiera a Dio. L’orante qui, non si mette in contatto con il suo Signore per supplicargli qualche grazia per sé o per qualcun altro, ma semplicemente prega Dio dicendogli quanto è importante per lui. Si tratta in effetti di una preghiera carica di fiducia in cui riconosce che la compagnia di Dio lo rende impavido, coraggioso, senza aver paura di nulla e nessuno, perché si sente preso amorevolmente per mano dal Padre. Così anche qualora dovesse trovarsi in quella valle oscura che simboleggia il momento di crisi del credente, le prove e le sofferenze della sua vita, in cui non riesce a trovare una ragione davvero plausibile, lui riconosce che con Dio per amico nulla gli può mancare.
In effetti appellare Dio come pastore non significa semplicemente riconoscerlo come guida nel proprio cammino. Il Signore non intende instaurare con noi una relazione tra soggiogante e soggiogato, tra superiore ed inferiore. Benché Dio illumini le nostre vite e, se glielo concediamo, ci indirizza verso strade spianate, lui non si limita a questo, ma intende avere con noi una relazione amicale, affettiva. E in effetti nella simbolica biblica il Dio-pastore è propriamente il compagno di viaggio di un Israele che è stato condotto dalla schiavitù egizia alla terra dove scorrono latte e miele. Dio-pastore è il Dio-liberatore, che salva perché ama e vuole essere amato. Non a caso durante i quarant’anni di peregrinazione nel deserto, Israele ha potuto constatare come Dio si ingegnasse per renderlo felice. Lo alimentò con la manna dal cielo (Cfr. Es 16,1-5), fece scorrere acqua da una roccia quando soffrì la sete (Cfr. Es 17,1-7) e mandò quaglie perché il popolo potesse nutrirsi anche di carne (Cfr. Es 16,9-13).
La simbologia del Dio-Pastore, viene anche ripresa da Gesù, illuminandola ulteriormente di senso, rivelando come questi non si limita a condurre il pascolo verso prati verdeggianti di giorno e a recinti sicuri di notte, ma si fa a tal punto solidale con il gregge che muore per esso:
Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. Gv 10,11-15
Da questa ricchezza simbolica del pastore, si comprende ancora meglio il secondo simbolo, quello del banchetto, che in qualche modo richiama l’abbondanza della vita divina, escatologica, e già pregustabile in questa vita. Per noi cristiani l’immagine del banchetto richiama anche quello eucaristico e alla relazione sponsale che Dio vuole avere con noi.
Da qui, dunque, sorge la fiducia e la speranza del Salmista che si dice sicuro di poter camminare per valli oscure e tempi tenebrosi, perché con Dio per amico non può capitargli nulla di male. Allo stesso modo anche noi siamo chiamati ad alimentare questa relazione fiduciosa con lui, tanto da non disperare se in certi momenti della nostra vita tutto sia buio e confuso, perché il Signore non ti abbandona mai, ha dato la vita per te, perché tu sia salvo e felice, ora e per sempre. Quel «Tu sei con me» del Salmista lo si deve intendere declinabile in tutti i tempi del verbo, perché Dio è fedele, non abbandona il suo gregge al di là se questi è riconoscente o meno con lui.
L’itinerario, dunque, del gregge che segue il pastore ovunque egli voglia, diventa per questo anche un itinerario morale e spirituale di chi decide di scoprire chi sia Dio nella propria vita e per questo sceglie la strada del seguirlo più da vicino, dell’imitarlo, del realizzare quella vocazione “creazionale” che Dio impose alla creatura quando la fece a sua immagine e somiglianza. Seguire il divino Pastore, in ultima analisi, significa dire il nostro fiat a lui, imitando quel suo amore che si dona fino allo sfinimento per gli altri, per riscoprire il senso vero di una vita che paradossalmente si illumina nella misura in cui ci mettiamo alla sua ombra, strettamente uniti a lui, fino all’assimilazione di Paolo: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
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